Mario Deaglio, La Stampa 2/7/2008, 2 luglio 2008
I mezzi d’informazione pongono giustamente l’accento sugli aumenti dei prezzi italiani ed europei, ma ottengono il risultato di spaventare più che quello di informare l’opinione pubblica
I mezzi d’informazione pongono giustamente l’accento sugli aumenti dei prezzi italiani ed europei, ma ottengono il risultato di spaventare più che quello di informare l’opinione pubblica. Cerchiamo invece di superare la paura che, a ragione, l’inflazione provoca in noi e guardare dentro alle fauci del mostro. Scopriremo allora che la grande maggioranza degli aumenti dei prezzi è concentrata in tre soli settori e cioè i trasporti (carburanti), l’elettricità e i generi alimentari. La concentrazione attuale delle spinte inflazionistiche indica che il processo inflativo è ancora nelle sue prime fasi, come un’infiammazione localizzata che non si è ancora estesa a tutto l’organismo. Se per il calcolo dell’inflazione usassimo il (discutibile) sistema americano che esclude gli aumenti più rilevanti, l’inflazione di base (core inflation) di quasi tutti i paesi europei si collocherebbe tra il 2 e il 3 per cento, ossia a un livello di attenzione e preoccupazione, ma non ancora di allarme rosso. L’inflazione attuale deriva prevalentemente dall’aumento dei prezzi dei beni importati e tale aumento non ha ancora scatenato un’ondata di aumenti salariali, tesi a ripristinare il potere d’acquisto perduto; se e quando quest’ondata si scatenerà, l’inflazione si diffonderà in ogni settore e sarà molto più difficile curarla. Siamo quindi (forse) ancora in tempo per aggredire l’attuale ondata di aumento dei prezzi con rimedi specifici, ossia senza utilizzare misure «pesanti», come l’aumento del costo del denaro che, con ogni probabilità, implicherebbero un brusco arresto della crescita. Per far uso di una metafora medica, l’attuale inflazione italiana ed europea assomiglia a un mal di gola, forse ancora curabile con appropriate pasticche, senza passare subito agli antibiotici che stroncherebbero, sì, il male ma al prezzo di lasciare l’organismo stanco e debilitato. La «cura con le pasticche» si dovrebbe concretare in interventi fiscali mirati, sotto forma di sgravi o altre facilitazioni, per quei settori «sensibili» sul cui costo di produzione incidono pesantemente il prezzo del petrolio e dei suoi derivati, e i cui aumenti raggiungono molto rapidamente il consumo finale. Naturalmente tutto ciò deve intendersi in cambio di un implicito assenso delle imprese di questi settori a non aumentare i prezzi che andranno tenuti attentamente sotto controllo; e non sostituisce la necessità di lungo periodo di modificare in profondità i meccanismi che limitano la concorrenza e quindi favoriscono il semplice trasferimento, a un cliente che non può reagire, degli aumenti di prezzo ricevuti. Tra i settori in questione figurano l’autotrasporto, la pesca e forse anche la panificazione, mentre non si dovrebbe escludere una riduzione generalizzata del carico fiscale sui carburanti, pari a oltre i due terzi del prezzo alla pompa, che compensi gli aumenti sul greggio importato, nel tentativo di mantenere il prezzo finale invariato. Queste azioni, però, esulano di fatto dalle competenze dei singoli governi nazionali, in quanto, se applicate da uno o pochi paesi membri dell’Unione Europea potrebbero essere considerate distorsive della concorrenza e quindi bocciate a Bruxelles. pertanto un errore cercare di risolvere l’attuale problema inflazione a livello nazionale; a giudicare dal dibattito degli ultimi giorni, le forze politico-sociali italiane rischiano di compiere quest’errore in quanto ritengono di avere come unico o principale interlocutore il governo italiano, mentre, siccome sono necessarie decisioni concordate a livello europeo, bisogna dialogare, prima di tutto, con la Commissione o con l’Ecofin, l’organismo che raggruppa tutti i ministri dell’Economia e della Finanza dei paesi dell’Unione. L’attenzione si deve quindi spostare a Bruxelles ed è doveroso osservare che, in quest’occasione, l’Unione Europea risente duramente dalla mancanza di un ministro dell’Economia, dotato di poteri di coordinamento delle politiche economiche nazionali e della capacità di dialogare con la Banca Centrale Europea, la quale, quando alza il costo del denaro, fa il proprio mestiere senza alcun contrappeso adeguato. altrettanto doveroso sottolineare che, in questa vicenda, la Commissione ha dato prova di un’incredibile inettitudine. Mentre c’è stata qualche risposta all’aumento mondiale del prezzo dei cereali (autorizzazione alla coltivazione dei terreni a riposo), di fronte alla «crisi annunciata» dell’aumento dei prezzi petroliferi, non sembra, al momento aver fatto proprio nulla se non essersi espressa con qualche buona parola di circostanza. Il suo «memorandum» del 19 giugno e la successiva nota del 24 giugno sono due «lezioncine» di economia, condite di buoni propositi ma sostanzialmente prive di alcuna proposta concreta. Paiono più preoccupate per gli effetti dell’inflazione petrolifera e agricola nei paesi emergenti che per quelli sulla spesa quotidiana dei cittadini europei. Questo distacco dai problemi reali della gente è probabilmente uno dei motivi della disaffezione, se non dell’aperta ostilità, verso l’Unione di una parte crescente degli europei. Sull’attuale inflazione, l’Unione Europea si sta giocando qualcosa di più di qualche punto percentuale di crescita della produzione e precisamente il suo stesso modo di essere e di governarsi. sperabile che la Francia, che ha cominciato ieri il suo semestre di presidenza dell’Unione, abbia chiaro il carattere cruciale di questo periodo. E non si limiti a chiedere alla Banca Centrale Europea di non alzare il costo del denaro senza offrire in cambio un «pacchetto» di misure che rendano superfluo questo aumento. mario.deaglio@unito.it Stampa Articolo