Vanity Fair 5 marzo 2008, Sara Faillaci, 5 marzo 2008
Clemente J. Mimun. Vanity Fair 5 marzo 2008 Piersilvio Berlusconi, il suo editore, ha detto che andare in video, fare l’anchorman, non è il suo mestiere
Clemente J. Mimun. Vanity Fair 5 marzo 2008 Piersilvio Berlusconi, il suo editore, ha detto che andare in video, fare l’anchorman, non è il suo mestiere. Ci sarà rimasto male. «No, perché fare l’anchorman non è mai stato il mio sogno: dirigo telegiornali da 14 anni e non li ho mai condotti. Il giorno stesso di quella dichiarazione, è arrivata da Piersilvio una telefonata di chiarimento. Mi ha spiegato che aveva detto tutt’altro. E cioè che, con le responsabilità e quello che ho da fare, si stupiva del fatto che trovassi il tempo di andare in video. Come dargli torto?». Clemente Jackie Mimun è nato a Roma 54 anni fa, figlio di un ebreo di origine libica che amava Chaplin e che, in suo onore, gli diede il nome del protagonista del Monello, Jackie Coogan. Dal luglio 2007 è il direttore del Tg5, il notiziario che, nel ’91, aveva contribuito a fondare con Enrico Mentana. prima era stato in Rai, e in Rai era tornato: come direttore del Tg2 (dal 1994 al 2002) e del Tg1 (dal 2002 al 2006). Da quando c’è lui, il Tg5 dedica alla cronaca rosa meno spazio di quello che gli dava il suo predecessore, Carlo Rossella; nel novembre scorso, poi, Mimun ha cambiato studio, grafica e conduttori, tra i quali, a sorpresa, si è messo anche lui. La sede del Tg5 è a Roma ma ci vediamo a Milano, dove è venuto per una riunione Mediaset. abbronzato («Sono appena tornato da una settimana alle Maldive, la mia prima vacanza dopo 2 anni e 7 giorni di lavoro») e di ottimo umore («Le elezioni sono un bel momento, i cittadini possono scegliere. E poi, siamo arrivati alla bellissima»). Che cos’è la bellissima? «La quinta partita che gioca Berlusconi. La prima è stata nel ’94, poi c’è stata la rivincita, la terza era la bella, la quinta è la bellissma». Come la sta affrontando? «Mi diverto a gestire i faccia a faccia tra i politici: sono la mia specialità. Se ho dato meno spazio alla cronaca leggera non è stato solo perché ho interessi diversi da Carlo (Rossella, ndr), ma anche perché volevo abituare il pubblico ad argomenti un po’ più tosti, come la politica. E gli ascolti ci hanno premiato». Però negli ultimi due mesi il distacco tra voi e il Tg1 della sera si é di nuovo allargato: cinque punti di share. «Perché a dicembre era cambiato il preserale (il programma che precede il tg delle 20, ndr), e soprattutto perché su Rete 4 c’è una serie, Tempesta d’amore, che fa l’11 per cento: prima, alla stessa ora, quel canale faceva il 4. I nostri ascolti comunque sono ottimi. E grazie anche a Forum, nell’edizione delle 13 abbiamo guadagnato 5 punti». Tornando alla campagna elettorale: il Tg5 potrebbe fare un endorsement all’americana, una dichiarazione ufficiale di schieramento? «Non ci penso per niente. Del resto, tutti percepiscono già il Tg1 più vicino al centrosinistra, e il Tg5 al centrodestra». Eppure Gianni Riotta, che l’ha sostituita sulla poltrona del Tg1, a Vanity Fair ha detto che i notiziari Rai fanno servizio pubblico, vivono col canone, e perciò non possono schierarsi. «Sì, e io credo a Babbo Natale e alla Befana. Il Tg1 che facevo io era un angioletto rispetto a oggi. Il notiziario di Raiuno è bottino di guerra di chi vince le elezioni, tanto è vero che Prodi, appena eletto, mi ha fatto sostituire. Fra le tante emergenze che c’erano nel Pese, la prima cosa di cui si è occupato è stato procurarsi strumenti di consenso. Quando mi danno del fazioso, mi sento come un bambino che all’asilo viene attaccato dal branco. A me sembra che tanti altri giornalisti lo siano molto di più: io al massimo pencolo un po’ da una parte. Non è un caso se, in 14 anni di direzione dei più importanti tg, non ho mai avuto un richiamo da parte delle aut E la par condicio? «Sono assolutamente contrario: chi fa il nostro mestiere dovrebbe essere libero di raccontare quello che vede e sente. Visto che c’è, però, la rispetto». Di Pietro ha proposto di togliere due reti a Mediaset e due alla Rai. E voi direttori dei tg Mediaset avete protestato con editoriali molto duri. «In un mondo dove si moltiplicano i canali e le occasioni di pluralismo, non si capisce perché solo in Italia si vada nella direzione opposta. Veltroni comunque, quando è venuto ospite al Tg5, ha preso le distanze da questa follia». Le piace Veltroni come politico? «Lo conosco da una vita: è giusto che si assuma responsabilità. Se lo avesse fatto prima, avrebbe evitato al Paese il Prodi bis. Ma forse doveva far cuocere chi poteva ostacolarlo. Nel Pd ci sono personaggi di spicco e più o meno coetanei - D’Alema, Bersani -, la sua leadership deve svilupparsi. Credo che avrà possibilità, ma non a queste elezioni, semmai alle successive. Anche perché la prossima volta Berlusconi potrebbe puntare più alto che a Palazzo Chigi». Al Quirinale? «Sarebbe un ottimo presidente». Squilla il cellulare, Mimun risponde. «Amore di papà, sono occupato. Ma sei raffreddatissimo: tutto bene?». Amore di papà quanti anni ha? «Ho due figli. Il più piccolo ha 16 anni, questo che ha chiamato ne compie 18 il 14 aprile. Non sa quanto è contento di votare. Da quando ha saputo la data delle elezioni, è andato a manifestazioni di tutti i colori. Non perché sia indeciso: voleva vedere l’ambiente». Come si chiamano i suoi figli? «Claudio e Simone. I nomi li ho scelti io mentre andavo all’anagrafe: mia moglie ancora oggi vorrebbe uccidermi». Non ne avevate parlato prima? «Quando è nato il primo, il ginecologo ci aveva detto che sarebbe stata una femmina. Quattro giorni prima del parto, ci convoca e dice: sedetevi, devo parlarvi. Io volevo stare in piedi, lui insisteva perché mi sedessi. Ero esasperato, gli ho urlato che doveva dirmi subito qual era il problema: ormai ero sicuro che ci fosse una malattia, una malformazione. E il ginecologo: "Ho fatto un errore, è un maschio". Gli ho mollato una pizza in faccia che se la ricorda ancora». a favore della moratoria sull’aborto? «Sono d’accordo con Ferrara quando dice che, come principio, esultare per la moratoria sulla piena di morte dovrebbe indurre a battersi per difendere la vita. Non mi sta bene che, se un feto sopravvive all’aborto e la madre non lo vuole, lo si debba ammazzare. Sono però contrario a ingenerare l’equivoco che si stia mettendo in discussione la legge 194: le donne la considerano una conquista». A giudicare dalla telefonata, lei è un padre affettuoso. «Ho preso da mia madre, una donna molto fisica. Un po’ è una caratteristica della tradizione familiare ebraica. Uno dei ricordi più nitidi della mia infanzia è il dolore dei pizzichi sulle guance». Che cosa fa il suo figlio grande? «Il liceo classico. molto curioso: temo voglia fare il giornalista. E quando guardo i suoi occhi, pieni di innocenza e speranze, l’idea che finisca in questo frullatore non mi fa stare bene. Il giornalismo è un mestiere meraviglioso, ma è enorme la quantità di odio, rancore e faziosità che devi affrontare quando arrivi a coprire posti di responsabilità. Devi avere il pelo sullo stomaco». Lei ce l’ha? «Quando ho iniziato a fare il direttore, nel 1994, gli attacchi mi tramortivano. Oggi devono spararmi alla nuca». Tornasse indietro, farebbe altro? «Non avrei mai immaginato di diventare direttore di tre tg nazionali. Non ho mai frequentato sezioni di partito, salotti, conventicole. Ho iniziato questo mestiere per caso, prima come fattorino all’Asca, una piccola agenzia dove sono cresciuto fino a diventare redattore. Se ho avuto un merito, oltre a volontà e capacità di sacrificarmi, è stato quello di accorgermi sempre quando passava l’autobus. Ma se potessi scegliere come usare la fortuna che ho avuto nella professione, forse punterei su un mio gol per la Lazio nel derby di campionato». Non avrà fatto politica attiva, ma la politica ha influito sulla sua carriera. «Sono entrato in Rai per interessamento di Claudio Martelli, e lo ringrazierò sempre, perché mi ha salvato dalla strada. Nel 1983, dopo 12 anni all’Asca, che è sempre stata di proprietà della Dc, Clemente Mastella mi chiamò per dirmi che dovevano fare dei tagli, mi avrebbero licenziato perché ero l’unico non democristiano. Chiamai Martelli, che conoscevo perché avevo fatto una campagna elettorale come volontario per il Psi, e gli chiesi una mano. Qualche mese dopo, in una delle lottizzazioni che vengono fatte periodicamente in Rai, e che riguardano tutti i partiti - l’unico lottizzato sembro io, ma il Pci negli anni ha piazzato una valanga di giornalisti dell’Unità -, il socialista da assumere rinunciò, ed entrai al suo posto. In Rai, e nel mondo adulto». Nel senso che perse l’innocenza? «Più che l’innocenza stavo per perdere il lavoro, che mi serviva per campare. Io non sono un figlio di papà, a differenza di tanti giornalisti di sinistra, vedi Furio Colombo, che non mi risulta vengano da famiglie operaie, e che mi hanno rinfacciato con disprezzo il mio passato di fattorino. Quello che volevo dire è che entrare in Rai è come entrare in rosticceria: quando esci puzzi di unto, e non dal Signore. Molti anni dopo mi sono accorto che mi era stata messa un’etichetta e non me la sarei più tolta». Direttore come lo è diventato? «Premesso che sono rimasto redattore ordinario per 17 anni - per essere un raccomandato non mi è andata di lusso - il salto vero l’ho fatto quando sono diventato capo degli speciali del Tg1 al posto di Mentana, che era stato chiamato alla vicedirezione del Tg2. In quella "casella" era previsto un giornalista, i candidati erano Giancarlo Santalmassi e Paolo Bolis, ma Intini e De Michelis non si mettevano d’accordo. La questione arrivò a Craxi, che disse: "Ma non c’è un altro nostro simpatizzante? Quel Mimut, Mamut, Mimun...". E il posto lo diedero a me. Nel ’91 andai al Tg5. E quando nel ’94 vinse le elezioni Berlusconi, che era stato il mio editore e mi aveva apprezzato, fui richiamato in Rai». Al Tg1 ha fatto tante assunzioni su indicazione politica? «In Rai chi governa sceglie i direttori dei tg. Ma io, come direttore, ho sempre assunto giornalisti dalla lista dei precari. Altra cosa sono le promozioni, che devono rispettare certi equilibri. Al Tg1, il 75% della redazione è di sinistra, quindi a me hanno reso la vita difficile. Riotta deve solo convincere l’altro 25%. Anche se in Rai asce ed elmetti si dissotterrano soprattutto in periodi come questi, di campagna elettorale». E nella sua, di redazione? tutto più tranquillo. So benissimo come si deve fare il Tg1, e che da certe regole non si scappa, noi potremo affrontare la campagna con più libertà: per questo sono ottimista sulla sfida con il concorrente. E poi, dopo le innovazioni di novembre, ne arriveranno altre: non posso entrare nei dettagli, ma mi creda, saranno ancora più incisive». Se fare l’anchorman non le interessa, perché va in video? «Volevo dare uno scossone all’edizione delle 20, e assumermi le mie responsabilità: se il tg va bene è merito di tutti, se va male è colpa mia. Ma non lo farò in eterno: smetterò, magari in estate». Guadagnava più al Tg1 o adesso? «Adesso: un 20% in più. E la Rai non mi ha ancora pagato due anni di ferie arretrate che mi spettano: sono in causa». I soldi sono importanti? «Ne ho avuti talmente pochi, nei primi anni, che so bene che cosa significa non arrivare alla fine del mese, come succede a tante famiglie italiane. Bastava una bolletta salata a mettermi nei guai, prendevo l’autobus prima delle 8 per pagare 15 lire anziché 25. Ho il terrore dei debiti e non ne ho mai fatti. A 21 anni mi sono imposto di avere sempre da parte una somma che mi consentisse di vivere 6 mesi senza stipendio». Qualche sfizio se lo sarà tolto. «Una moto Brutale, della MV Agusta. L’ho contesa a Tom Cruise, che ne aveva ordinate tre». A parte andare in moto, nel tempo libero che cosa fa? «Tanta Lazio. E le passeggiate con Shonny, il mio cane». Il figlio del border collie dello spot Infostrada con Fiorello. «Il padre è morto. Shonny ha 7 anni, è intelligentissimo. Lo comando a voce, capisce le parole e gli stati d’animo: quando sono arrabbiato gira alla larga». Squilla il cellulare. «Ehi, amore mio. Sto facendo un’intervista. Sì, è lunga. Ti chiamo appena ho finito, amore mio». Poi, rivolto a me: «Questa era mia moglie (Karen Rubin, giornalista di Panorama, ndr)». E anche lei è ebrea di origini libiche. Come vi siete conosciuti? «Al mare, a Fregene. Siamo sposati da 19 anni. Quando ne avevo 20 ho avuto un primo matrimonio: è iniziata come è finita, in un baleno. Dopo sono stato a lungo prigioniero della mia libertà. Ho fatto casini a sufficienza: avevo 15 anni nel ’68, 24 ne ’77, diciamo che non mi sono fatto mancare niente». Mai fumato uno spinello? «Solo uno: mi faceva dormire». Successo con le donne? «Più del minimo sindacale». I suoi punti di forza? «Occhi e chiacchiere. Non ho mai curato l’aspetto. Mi è dispiaciuto perdere i capelli: da ragazzino avevo una testa alla Jimi Hendrix». Sua moglie è gelosa? «Non credo, e comunque non ne ha ragione: ormai sono un catorcio». E lei, è geloso? «No, anche se Karen ha 14 anni meno di me. Invecchiando, ti fidi di più, smetti di angosciarti». A casa parlate di lavoro? «Parliamo di tutto. Il problema di mia moglie è che mi ha sposato». Che cosa vuol dire? «Che sono un marito ingombrante. Lei, anche come giornalista, è molto, ma molto meglio di me». Sara Faillaci