Corriere economia 17 marzo 2008, MASSIMO GAGGI, 17 marzo 2008
Tags : Anno 1901. Raggruppati per paesi. Stati Uniti
Storia della Monsanto
Ogm, la semina di Monsanto a Bruxelles. Corriere economia 17 marzo 2008. Nell’anno della recessione americana e dell’orso che ha fatto della Borsa di New York la sua tana, Monsanto è una delle poche stelle che brillano a Wall Street. Prova della natura demoniaca del suo business, dicono gli ambientalisti e gli altri nemici giurati degli Ogm, gli organismi geneticamente modificati: la base delle principali produzioni della multinazionale agricola di St. Louis, in Missouri. Lampante dimostrazione - replicano invece alla Monsanto - che, nonostante sospetti e diffidenze molto diffusi, la società ha saputo sviluppare e portare sul mercato prodotti validi che, alla fine, convincono tanto i produttori quanto i consumatori. Prodotti e tecnologie che oggi - con la rapida crescita della domanda di cibo dell’Asia che fa impennare i prezzi di tutte le derrate - rappresentano l’unica possibilità concreta di aumentare in modo consistente la produzione e calmierare il mercato. Dow, Basf, Dupont: sono ormai numerosi i giganti della chimica che hanno impegnato una parte delle loro risorse allo sviluppo dell’ingegneria genetica applicata all’agribusiness. Ma solo Monsanto ha fatto la scelta radicale di dedicarsi quasi esclusivamente a questo settore ad alto rischio e ad alto reddito. Una scelta parsa per molti anni temeraria, ma che ora sta pagando. Anche se alcuni mercati continuano ad esserle preclusi, l’azienda vive un’epoca di rapidissimo sviluppo: nei cinque anni della gestione di Hugh Grant il valore del titolo Monsanto è cresciuto più del mille per cento. Il principale campo di battaglia, per l’azienda americana, è oggi l’Europa che ha fin qui difeso la sua posizione di fortezza anti-Ogm. Una fortezza sempre più minacciata, visto che, nel frattempo, l’agricoltura biotech ha sfondato non solo negli Usa, ma anche negli altri mercati agricoli mondiali: dalla Cina all’India, dal Canada al Brasile. Anche per la Ue, ora, si avvicina il momento di decisioni delicate. Incalzata dal Wto che considera i suoi veti sugli Ogm una barriera illegale al free trade , l’Unione non riesce a trovare una posizione comune nei vertici ministeriali. Sarà quindi la Commissione, nei prossimi giorni, a decidere. I commissari europei responsabili per la tutela dell’ambiente, della sanità e dei consumatori non vorrebbero aprire la porta agli Ogm, ma i loro colleghi economici cominciano a pensare che i veti degli ultimi anni siano ormai insostenibili: i rischi che erano stati intravisti dietro la diffusione degli Ogm non si sono, per ora, materializzati, mentre grazie alle nuove tecnologie agricole dal 1970 ad oggi la produzione di un ettaro coltivato a cereali è raddoppiata. E, con gli Ogm di seconda generazione ora allo studio delle multinazionali agroindustriali, la produzione potrebbe ulteriormente raddoppiare nei prossimi 20 anni. Non più soltanto mais o soia che crescono meglio perché capaci di resistere ad erbicidi e pesticidi - sementi per le quali Monsanto controlla dal 70 al 100 per cento del mercato - ma addirittura cereali capaci di sopravvivere alla siccità: prodotti che hanno bisogno di meno acqua e meno fertilizzanti. A differenza del passato - quando, con la sua aggressività, la Monsanto si era fatti nemici in tutto il mondo, fino ad essere soprannominata Mutanto - oggi la società americana cerca di accreditare l’immagine di «colosso tranquillo». Può farlo perché, dopo anni di battaglie all’ultimo sangue con gli ambientalisti e con migliaia di contadini accusati di sfruttare abusivamente i suoi brevetti, dopo il processo per corruzione di funzionari pubblici in Indonesia, ora Monsanto naviga in acque meno agitate. Comunque finisca la battaglia di Bruxelles, la società sente di aver vinto la sua guerra: fatturato e profitti sono in continua crescita, il mercato si sviluppa in tutti i continenti. I suoi dirigenti si sono, poi, convinti che il tempo giochi a loro favore perché, se gli Ogm di prima generazione hanno offerto essenzialmente benefici di produttività che hanno arricchito i produttori, ma senza vantaggi visibili per i consumatori, con quelli di seconda generazione le cose potrebbero cambiare radicalmente: non solo aumenterà ancora la produzione, ma anche il sapore e la consistenza di alcuni cibi potranno essere migliorati e adattati ai gusti delle diverse popolazioni. Fattori che potrebbero ridurre le resistenze dei consumatori. La scommessa è rischiosa e Monsanto forse pecca di eccessivo ottimismo: la carne che verrà prodotta con i processi di clonazione, dicono gli esperti di biotecnologie, sarà più saporita, più morbida e, forse, perfino più sana. Ma i timori, davanti a processi così rivoluzionari e difficili da controllare, sono enormi, tanto che le stesse autorità americane hanno sollecitato una sorta di moratoria volontaria per le carni clonate. Ma, con un brusco cambio di rotta, stavolta le industrie del settore hanno evitato di alzare barricate: la moratoria è stata accettata da tutti di buon grado. Nessuno vuole ripetere i peccati di arroganza commessi a suo tempo dalla Monsanto che, all’alba dell’era dei cereali geneticamente modificati, tirò dritto ignorando dubbi e paure dell’opinione pubblica. Errori che, a un certo punto, hanno messo in pericolo la stessa sopravvivenza di questa società ultracentenaria (è stata fondata nel 1901). All’inizio di questo decennio la multinazionale chimica fu separata dal gruppo Pharmacia-Upjohn col quale si era fusa poco prima e spinta a concentrarsi quasi esclusivamente sul business agricolo: una scelta maturata proprio quando l’opposizione agli Ogm in giro per il mondo era massima. Nel 2002 la società perse 1,7 miliardi di dollari mentre il valore dell’azione in Borsa si ridusse del 50%, fino a 8 dollari. L’amministratore delegato Hendrik Verfaillie venne messo alla porta e al suo posto, all’inizio del 2003, arrivò il giovane Hugh Grant, un esperto di vendite deciso a dare un’immagine meno arcigna dell’azienda. Quello che non cambiò, anche con la nuova gestione, fu la fede incrollabile nell’ingegneria genetica: anche se Paul McCartney invitava il mondo a ribellarsi agli Ogm e l’economista Jeremy Rifkin affermava che questi organismi si sarebbero rivelati il più clamoroso fallimento della storia del capitalismo, Monsanto decise di destinare addirittura il 10 per cento del suo fatturato alla ricerca genetica. Ma cercò anche di spostare la sua attenzione su prodotti destinati a non finire direttamente nei piatti della gente. Quindi più cereali per biocarburanti, più cotone biotech, più mangimi per il bestiame. Una strategia che, come detto, ha pagato: oggi il titolo Monsanto oscilla tra 100 e i 110 dollari. Ma, in mercati così controversi e turbolenti, nessuna conquista è per sempre. Se Monsanto ha sostanzialmente vinto la battaglia dei cereali Ogm, è di nuovo nei guai su un altro fronte: quello dell’ormone bovino della crescita che consente di aumentare di un quarto la produzione di latte delle vacche. L’azienda contesta il diritto di chi non usa l’ormone nell’etichetta che accompagna il prodotto. Non ce n’è motivo, sostengono, dato che i due tipi di latte sono chimicamente identici. Ma stavolta la società di St Louis è stata contestata non solo dai consumatori ma anche dai produttori; non all’estero ma anche nella pragmatica America. MASSIMO GAGGI