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 2008  marzo 12 Mercoledì calendario

Così Benedetti giocò la partita Wind. Il Sole 24 ore 12 marzo 2008. In questo momento, va detto subito, non è noto alcun elemento per sospettare che sia stata pagata una tangente per favorire l’imprenditore egiziano Naguib Sawiris nell’acquisizione della Wind

Così Benedetti giocò la partita Wind. Il Sole 24 ore 12 marzo 2008. In questo momento, va detto subito, non è noto alcun elemento per sospettare che sia stata pagata una tangente per favorire l’imprenditore egiziano Naguib Sawiris nell’acquisizione della Wind. Checché se ne sia scritto, detto o anche solo sussurrato, nessuno ha finora reso pubblico qualcosa che dimostri, o semplicemente faccia pensare, che l’amministratore delegato dell’Enel Fulvio Conti – o chiunque altro – abbia incassato un solo centesimo di mazzetta in quell’operazione. E per quel che riguarda i 414 milioni di euro pagati in commissioni a studi legali, banche, consulenti, broker e professionisti vari, i banchieri consultati dal Sole 24 Ore hanno definito la cifra alta. Anzi, molto alta. Ma non così alta da essere anomala. Al contrario, in un’operazione da 12 miliardi di euro ad alto rischio per le banche, quella cifra ci può stare. Basti pensare che Royal Bank of Scotland, Fortis e Santander hanno pagato 500 milioni di euro a Merrill Lynch soltanto di advisory nell’acquisizione di Abn Amro. Nulla di illecito neppure nei 73 milioni di euro che, secondo i calcoli del Sole 24 Ore, sono finiti a veicoli societari riconducibili al tuttofare di Sassuolo, Alessandro Benedetti. infatti riconosciuto da tutti che fu lui a ideare e portare a compimento l’acquisizione. quindi legittimo sostenere che l’egiziano Sawiris gli abbia riconosciuto una commissione... faraonica. Il fatto che Benedetti avesse alle spalle una serie di fallimenti, ipotesi di bancarotta (prescritte) e una condanna in tribunale (patteggiata) non vuol dire nulla ma può alimentare sospetti. E in tribunale i sospetti non portano ai processi e alle condanne. Per quello, servono le prove. Le indagini della magistratura Fatte queste premesse, se tre sostituti procuratori puntigliosi come Giuseppe Cascini, Rodolfo Sabelli e Giuseppe De Falco hanno iscritto nel registro degli indagati Benedetti e Conti assieme a Sawiris e altre otto persone, si deve dedurre che il nucleo della Guardia di finanza che conduce le indagini abbia fornito loro motivi sufficienti perlomeno per avviare nei loro confronti accertamenti per verificare se una qualche tangente sia passata di mano. L’obiettivo di questa seconda puntata della nostra inchiesta è cercare di capire che cosa può aver alimentato questi sospetti. Cominciamo analizzando il ruolo di Benedetti. A parte Sawiris, il principale beneficiario di tutta l’operazione è infatti proprio lui. Se oggi si presenta come «imprenditore che rischia il proprio denaro e possiede una banca d’affari» e si può permettere di vivere in una elegante palazzina di quattro piani a Belgravia, il quartiere più nobile e costoso di Londra, è solo ed esclusivamente grazie alla quarta resurrezione della sua ventennale carriera (le prime tre sono elencate nella puntata pubblicata ieri su questo giornale). Prima che l’operazione Wind lo ri-sdoganasse, Benedetti era infatti un signore sul cui capo pendeva la spada di Damocle di un’inchiesta per bancarotta non ancora andata in prescrizione. In quel periodo si muoveva per Roma a bordo di una Panda, costretto ad associarsi a personaggi quali il commerciante d’arte Antonio Lestingi. Fu infatti quest’ultimo a trovare gli uffici dove sarà studiata e messa a punto la scalata di Wind. Di Lestingi si era occupato il tribunale di Pesaro con una sentenza dell’11 gennaio 1996 in cui dichiarava lui e la moglie «i reali soggetti economici operanti dietro lo schema societario» della società fallita, la S.M. Italian Yachts Srl. In quella sentenza si parla di 19 assegni per 240 milioni di lire emessi «per aggirare la norma che impone l’obbligo di segnalare assegni per transazioni di importo superiore ai 20 milioni», ma soprattutto di cambiali che avevano come beneficiaria Matilde Ciarlante, una signora associata ai Lestingi anche in un’altra inchiesta e che il tribunale di Roma ha definito «soggetto di spiccata pericolosità sociale e punto di collegamento tra la camorra napoletana ed esponenti della criminalità organizzata romana». L’antiquario In cerca di chiarimenti, siamo andati a trovare il signor Lestingi, al numero 53 di via Margutta, la viuzza del centro di Roma famosa per le gallerie d’arte. «Anto’, c’è un giornalista del Sole 24 Ore», gli ha preannunciato la signorina che ci ha aperto la porta. Da dietro un muro, è arrivata la risposta: «Digli di andà aff...». Non era evidentemente interessato a concedere un’intervista. L’idea della scalata a Wind venne a Benedetti alla fine del 2002. Così sostiene nella documentazione depositata dal suo avvocato al tribunale di Londra nella causa intentata il 23 agosto scorso contro Sawiris (al quale sta ora chiedendo il 30% di Wind!). Nella richiesta di indennizzo, Benedetti si definisce «un businessman italiano con una considerevole esperienza nel mondo degli affari, particolarmente nelle telecomunicazioni e nella finanza». E spiega di aver individuato «un’opportunità in Wind» nel dicembre 2002. A Natale di quell’anno un suo amico dei giorni d’oro della villa di Beaulieu-sur-Mer lo presentò a Sawiris. Al quale propose l’affare. L’operazione era semplice: il contributo di Sawiris sarebbe consistito nel mettere i soldi, un terzo dei quali per conto di Benedetti; il suo, di coltivare «i contatti con Wind, Enel e il Governo italiano, il cui sostegno sarebbe stato necessario per l’acquisizione». E così fu. Perché, come si legge nel documento depositato in tribunale a Londra, «il signor Benedetti ottenne il sostegno di Wind, Enel e del Governo italiano, senza i quali l’acquisizione sarebbe stata impossibile». Insomma, per sua stessa ammissione il suo merito principale non sarebbe stato quello di aver messo in piedi una cordata impareggiabile o una proposta imbattibile, bensì quello di aver ottenuto «l’appoggio di Wind, Enel e Governo». Amicizie e contatti Ma che appoggi poteva avere uno sconosciuto come Benedetti? «Nel 2004 cominciò a farsi vedere presso il quartier generale di Wind. Per negoziare un accordo di acquisto di traffico per conto di Tele2, una società di telecomunicazioni svedese a cui era legato», ci dice un testimone che chiede l’anonimato. Ma come ebbe accesso ai vertici di Wind? «Arrivò all’amministratore delegato, Tommaso Pompei, tramite Mauro Miccio, che all’epoca era consigliere dell’Enel, e lo aiutò a creare le basi di un rapporto con Pompei. Tra l’altro, poco prima della vendita, Pompei firmò un contratto con una società controllata da Benedetti a condizioni per lui molto vantaggiose», risponde la fonte. Il riferimento è a un contratto conferito a Managest/Arama, società riconducibile a Benedetti, con il quale Wind cedeva ricariche Wind a prezzi ultra-scontati e con pagamenti dilazionati di 30 giorni rispetto al normale. E che permetteva quindi a Managest/Arama di avere significativi margini di guadagno. Anche con l’allora amministratore delegato dell’Enel, Paolo Scaroni, aprì un canale diretto? «No. Scaroni ci disse che della cosa si sarebbe occupato il suo direttore finanziario (Cfo), Fulvio Conti. Era con lui che si sarebbe dovuto trattare. Il problema all’inizio fu che non riuscivamo a incontrare Conti. Né ad avere accesso ai numeri di Wind, la cosiddetta dataroom, che invece era a disposizione di Blackstone. Questo, nonostante nel pool di advisor ci fossero nomi di prestigio, quali Rothschild, Abn Amro, Ubs e Sanpaolo Imi. Finché un giorno Alessandro Benedetti non suggerì di aggiungere Deutsche Bank agli advisor. Motivo? Era una banca che riteneva gradita a Conti, quella con cui Enel aveva appena fatto una grossa operazione di dismissione immobiliare». Le due offerte Fu in quel momento che Benedetti conobbe sia Conti che Vincenzo De Bustis, capo di Deutsche in Italia. E con scientificità cominciò a coltivare i rapporti anche con loro. La fonte tiene però a sottolineare che «non è vero che l’offerta di Sawiris fosse inferiore a quella di Blackstone. Era vero semmai il contrario, anche perché quella del fondo americano era puramente finanziaria e avrebbe fatto di Wind il solito spezzatino, mentre quella di Sawiris aveva un dettagliato piano industriale». Questo non esclude tuttavia - ipoteticamente - opportunità e denari per una o più tangenti. Nel pacchetto delle commissioni, gli investigatori hanno appuntato la loro attenzione su alcuni pagamenti. Il più sostanzioso è quello dei 67 milioni pagati alla Itm di Londra. Ci sono poi pagamenti molto più piccoli, ma ad altre entità tipo Itm, il cui ruolo non appare a prima vista evidente. Parliamo della Managest (4 milioni), della Taco e della Larchsquare (1,75 milioni) o del commercialista di Frascati Bruno Capone (1,2 milioni.) Il Sole 24 Ore è andato a vedere chi c’è dietro questi nomi poco noti. In un’intervista al settimanale Panorama, Benedetti ha definito Itm «una società da me controllata». Non è vero. controllata al 100% da Jack Nounou, suo partner londinese. Presupponiamo comunque sia vero che attraverso Itm Sawiris pagò la fee per il suo ruolo nella transazione. Anche dietro alla Managest c’è Benedetti. E quei 4,08 milioni di euro erano il rimborso per le spese sostenute nel corso della trattativa - dai viaggi aerei agli affitti degli uffici. Una cifra senza dubbio molto alta. Considerando che una delle sue segretarie ha rivelato alla trasmissione di Raitre Report di non aver neppure ricevuto il suo trattamento di fine rapporto. Altri 2,5 milioni circa sono stati infine girati a un altro veicolo riconducibile a Benedetti da una delle tre banche nel pool di advisor. Per un totale quindi di 73,5 milioni. Per quel che riguarda Taco, abbiamo trovato due ex dirigenti di Wind che, dopo essersi dimessi, avevano dato un importante contributo alla scalata. I beneficiari finali di Larchsquare sarebbero invece una decina di persone, tra egiziani, inglesi, americani e italiani, che avevano collaborato a costruire i modelli finanziari. Capone, infine, è il professionista a cui si rivolse la cordata di Sawiris per avere una perizia per il conferimento del 50% di Orascom in Weather, il veicolo creato per acquisire Wind. Parte del suo compenso venne comunque dirottato sulla Larchsquare per il lavoro fatto dai "modellisti" finanziari. Insomma, nulla di sospetto. Su un foglio A3 la mappa delle società Vista l’entità della somma, l’attenzione degli investigatori è concentrata sui 73 milioni riconducibili a Benedetti. Anche perché si perdono dietro a vari schermi. A differenza del commercialista Capone, il tuttofare di Sassuolo non è stato infatti pagato su un suo conto in banca o su quello di una sua società, bensì sul conto di un veicolo controllato da un socio. A Il Sole 24 Ore risulta inoltre che, una volta arrivati a Londra, quei soldi siano stati quasi interamente trasferiti in Svizzera sul conto di un’altra società costituita nelle British Virgin Islands. Ma, considerando il personaggio, non è un’operazione anomala. Gli schermi societari sono la sua specialità - basti sapere che usa girare con un foglio A3, che lui chiama il «garage», con tante caselline che contengono il nome dei diversi veicoli nelle più diverse giurisdizioni del mondo - in particolare paradisi fiscali quali Svizzera, Caraibi e Lussemburgo - dove tiene parcheggiati i propri beni. Gli inquirenti non hanno finora reso noti gli elementi che li hanno condotti a mettere nel mirino giudiziario Fulvio Conti, amministratore delegato dell’Enel. Dalla nostra inchiesta emergono però alcuni spunti che potrebbero essere utili per comprendere il motivo. Nonostante sia stato il Cda dell’Enel ha decidere di optare per la cordata Sawiris, fu Conti a gestire in prima persona la trattativa con le due cordate concorrenti, e quindi anche il rapporto con Benedetti. Rapporto che avrà uno strascico in un’operazione di straordinaria delicatezza e importanza strategica per l’Enel, la tentata scalata a Compagnie de Suez (si veda l’articolo in basso). Fu sempre Conti a gestire la delicatissima fase tra l’accettazione dell’offerta ad aprile e la chiusura dell’operazione ad agosto 2005, periodo in cui l’operazione cambiò forma. Anziché tre miliardi di euro in cash (gli altri nove erano di debito Wind), come previsto nell’offerta, Sawiris finì infatti col pagare alcune centinaia di milioni di euro in contanti e il resto in carta, con azioni di nuova emissione di un nuovo veicolo creato assieme all’Enel in cui era stato conferito il 50%, più una azione, della Orascom. Soluzione molto, ma molto meno dispendiosa per Sawiris. La governance dell’Enel Sono inoltre state sollevate alcune perplessità su come l’Enel di Conti (che nel frattempo era diventato amministratore delegato) si comportò in materia di diritti di governance. L’accordo conferiva infatti alla società elettrica diritti molto forti per tutto il periodo di mantenimento della quota di minoranza in Wind. Eppure al Sole 24 Ore risulta che gli egiziani cominciarono molto presto a non rispettarli. Anziché prendere decisioni collegiali - sulla nomina del direttore finanziario (Cfo) di Wind, sul rifinanziamento, sulla quotazione di Wind/Weather e sulla nomina degli advisor di quell’operazione - volevano decidere sempre tutto al Cairo. Non venne rispettato neppure il piano industriale, tant’è che Sawiris cominciò a importare a Roma management egiziano e a commissariare di fatto le decisioni tecniche e sugli investimenti infrastrutturali. E alla fine Weather è rimasta una scatola vuota. Gli stessi impegni sui livelli occupazionali sono infine venuti a mancare: dopo un anno e mezzo c’erano già 800 esuberi e altri ne sono in arrivo. «Se io ricevo un’offerta per il 100% di una mia controllata ma decido di venderne solo due terzi tenendomene un terzo, lo posso fare solo per due motivi. Il primo è perché credo nel piano industriale. Ma allora, avendone la prerogativa contrattuale, devo pretendere che venga realizzato. E comunque devo far valere i miei diritti di governance. L’altro motivo è perché penso di poter vendere il rimanente 30% più avanti a un prezzo maggiorato. Ma l’Enel ha finito col vendere l’ultimo terzo allo stesso identico prezzo dei due iniziali nonostante i conti di Wind fossero molto, ma molto migliorati. Peggio, ha concesso un dilazionamento nel pagamento. Tant’è che l’ultimo miliardo di euro non è stato ancora pagato», commenta una nostra fonte, che giustamente si chiede: «Qual è la ratio industriale o finanziaria di questo comportamento?». La stessa domanda alimenta evidentemente dubbi e sospetti degli inquirenti. Anche se l’Enel nega i suoi stessi presupposti: «L’Enel è voluta rimanere in Wind per esigenze di tipo politico, sociale e sindacale. Per garantire stabilità. E non è vero che non abbiamo fatto rispettare i nostri diritti di governance. Al contrario: c’è stata spesso una dialettica serrata e anche situazioni tese. Noi abbiamo sostenuto più volte l’inopportunità di certe operazioni. Tanto è vero che sono state fatte solo dopo che siamo usciti». Claudio Gatti