La Repubblica 13 marzo 2008, PIERGIORGIO ODIFREDDI, 13 marzo 2008
"sono un umanista scientifico". La Repubblica 13 marzo 2008. Umberto Eco è un meraviglioso esempio di anacronismo vivente: forse l´ultimo esemplare dell´umanista rinascimentale o dell´intellettuale universale, dotato di un´insaziabile sete di conoscere e di un´inesauribile disposizione a comunicare
"sono un umanista scientifico". La Repubblica 13 marzo 2008. Umberto Eco è un meraviglioso esempio di anacronismo vivente: forse l´ultimo esemplare dell´umanista rinascimentale o dell´intellettuale universale, dotato di un´insaziabile sete di conoscere e di un´inesauribile disposizione a comunicare. Non stupisce, dunque, che nei suoi romanzi, saggi e articoli affiorino qua e là riferimenti, allusioni e citazioni che lasciano intravedere frequentazioni scientifiche e matematiche, apparentemente inusuali in un letterato. Abbiamo approfittato della sua presenza al Festival di Matematica, per rivolgergli alcune domande a proposito di questo lato nascosto della sua poliedrica personalità. Inizierei dal modo in cui lei ha messo la matematica nelle sue opere. Mi ricordo per esempio che nell´Opera aperta c´erano addirittura delle formule... «A quell´epoca si stava usando la teoria dell´informazione per descrivere fenomeni di arte contemporanea e quindi il mio primo approccio, quello che poi sarebbe diventato l´interesse semiotico, è passato per la teoria dell´informazione, prima di Shannon e Weaver e poi di tutti quelli che avevano cercato di applicarla, anche illegittimamente, ai fenomeni artistici». Perché lei dice illegittimamente? «Intanto perché c´era questa forte ambiguità connessa alla nozione di entropia: insomma ci si chiedeva se la novità dell´arte fosse dovuta a stati di disordine o a stati di ordine e poi il duplice valore che assumeva il termine di informazione. Una era l´informazione che arrivava a destinazione diciamo decodificata e l´altra quella che potremmo chiamare, non in termini scientifici, informatività, cioè la possibilità massimale che quel sistema potesse generare informazione. Questo esisteva ed esiste nelle definizioni matematiche del concetto di informazione, ma nelle sue applicazioni all´arte c´è un´idea abbastanza confusa». Ci sono suoi libri in cui la matematica entra direttamente, per esempio nel Pendolo di Foucault c´è una pagina sul pi greco... «Sì, ma lì mi ero fatto aiutare da Mario Salvadori, uno dei più grandi scienziati mai vissuti. Professore di architettura tecnologica alla Columbia University, aveva fatto tutti i calcoli di struttura per il Progetto Manhattan. Era uno scienziato di grande sensibilità umanistica, frequentava Berio e mi aveva avvicinato dopo aver letto Opera aperta. Una volta in pensione, si era messo a dare lezioni ai bambini di Harlem: spiegava loro perché gli edifici stanno in piedi. Faceva esempi con le scatoline di fiammiferi per mostrare sino a che punto un balcone poteva star su e quando invece cadeva giù». Erano le prime bustine di Minerva. «No, erano scatole di fiammiferi svedesi. Gli ho fatto pubblicare da Bompiani Perché gli edifici stanno in piedi, un libro fantastico di scienza delle costruzioni senza neanche una formula. Io, che non ho mai capito niente di matematica o di fisica, sono sempre stato affascinato da questi problemi e li ho spesso inseriti nei miei romanzi. Ne Il nome della rosa c´è un personaggio che usa per la prima volta gli occhiali e manovra l´astrolabio con altri strumenti. Il pendolo di Foucault si svolge in un museo della scienza e della tecnologia. Ne L´isola del giorno prima ci sono tutti calcoli sui paralleli e sui meridiani. Ho utilizzato la pseudo-scienza del passato, come l´idea dell´unguentum armarium, cioè di come agire a distanza, e così via...». A proposito de L´isola del giorno prima, una volta ha cercato di spiegarmene la struttura... «Sotto tutti i miei romanzi c´è una sorta di... chiamiamola pure struttura matematica. Per ciascuno di questi, se si va a cercare nei miei appunti, si trovano dei diagrammi, per esempio - siccome sono pieni di flashback - di scansioni temporali, e ci sono tutte, per così dire, come la sezione aurea nella facciata delle cattedrali. Ci sono simmetrie molto rigorose, che poi quando poi scrivo e quando il lettore legge devono scomparire. Il lettore non deve accorgersene, ma per me queste simmetrie sono importanti. Rappresentano un piano di costruzione». Gauss, il grande matematico, diceva la stessa cosa: anche nella matematica ci sono questi elementi che servono come nell´architettura. Sono lo scaffolding, l´impalcatura, che, una volta tolta permette comunque all´edificio di stare in piedi da solo... «Faccio un esempio: ne L´isola del giorno prima c´è una nave che ha dei bugigattoli, dei passaggi in cui il protagonista si perde. Questa nave, lavorando su modelli seicenteschi, l´ho costruita e disegnata, in modo che ogni centimetro avesse una giustificazione per poter far muovere il mio personaggio. L´editore tedesco avrebbe voluto che pubblicassi il disegno, ma mi sono opposto: il lettore queste cose non deve vederle. Deve sentirsi tanto sperduto quanto il personaggio». D´altra parte è la stessa cosa che faceva Joyce, che non voleva i paralleli con l´Odissea direttamente nei titoli dei capitoli... «Sì, poi li ha confessati dopo: è l´ars celandi artem. Ecco, si può fare litterature à contraintes quando Joyce dice: "voglio seguire la struttura dell´Odissea". Si pone una costrizione. Chissà quanti altri autori, noi non lo sappiamo, non ci abbiamo mai fatto caso, ma hanno lavorato bene proprio perché si ponevano delle costrizioni». In questo lei è veramente oulipiano, mi riferisco all´idea di Raymond Queneau che diceva che gli oulipiani sono dei topi che costruiscono il labirinto da cui poi vogliono uscire. «Mi sono avvicinato alla litterature à contraintes oulipiana proprio perché mi sono accorto dell´importanza della costrizione nel mio romanzo, ma forse le costrizioni nel mio romanzo le ho messe così, di istinto. un retaggio dell´educazione cattolica: se non fai penitenza e non fai dei sacrifici non riesci a realizzare niente». A proposito dei suoi tre romanzi citati, ho sempre pensato che fossero tre libri scritti in altrettanti modi: Il nome della rosa a mano, o meglio a penna, Il pendolo di Foucault con il computer e L´isola del giorno prima come una sorta di ipertesto... «Non saprei. Quando ho scritto Il nome della rosa, tutti dicevano: "Per forza, ha fatto tutto con il computer!". Ma non era vero. Su Il pendolo un critico ha detto: "Beh, si sente che è un libro costruito al computer! L´unica cosa che invece è vera poesia, dove si vede che l´ha scritta a mano, è la scena finale del cimitero". Proprio quella, invece, è stata l´unica scritta solo per mezzo del computer perché la pensavo per tutti gli otto anni di stesura del libro. E così, quando è arrivato il momento di scriverla, l´ho conclusa in tre quarti d´ora, al computer». Quali sono le sue letture più vicine alla matematica? «Gran parte della mia cultura filosofica viene dalla lettura di fisici come Heisenberg o logici come Russell, in particolare quando si sono occupati di riflessione epistemologica. Mi capita di leggere libri di divulgazione matematica, ma poi li dimentico. un problema di forma mentis. Per esempio ho imparato tutti i giochi di carte, compreso il bridge, che credo sia considerato uno dei più difficili. Li ho giocati, però poi li ho dimenticati. Perché? Per disinteresse evidentemente». Ne La ricerca della lingua perfetta, ci sono riferimenti all´arte delle combinazioni... «Tutto il problema della combinatoria mi ha sempre affascinato, anche per i suoi rilievi filosofici e poi perché ho sempre sostenuto che quella che chiamiamo "creatività" è semplicemente una combinatoria. La creatività dipende dal modo in cui qualcuno, avendo evidentemente una struttura cerebrale diversa dagli altri, riesce a percorrere più rapidamente l´universo della combinatoria e a trovare la soluzione giusta. un discorso che può essere esteso a tutta l´arte. Si pensi a Michelangelo. Sosteneva che la statua si trovasse già in potenza all´interno del blocco di marmo. Allora perché tutti gli scultori della storia, avendo avuto più o meno gli stessi blocchi tra le mani, non ne hanno cavato fuori il Mosé? Eppure un capolavoro del genere era già nelle venature del marmo, nelle possibilità che il marmo offre e nelle sue impossibilità». Per concludere, come sintetizzerebbe il suo atteggiamento di scrittore nei confronti delle scienze in generale, e della matematica in particolare? «Direi che mi vedo come un impotente, che per tutta la vita non ha fatto altro che scrivere libri erotici...». PIERGIORGIO ODIFREDDI