Tito Boeri, La Stampa 14/3/2008, 14 marzo 2008
Più che una campagna elettorale è stata sin qui una campagna attiva per l’astensione al voto. Prima abbiamo assistito all’avvilente spettacolo di segretari di partito che contrattano con potenziali alleati e correnti interne sui nomi, oltre che il numero, dei singoli deputati e senatori
Più che una campagna elettorale è stata sin qui una campagna attiva per l’astensione al voto. Prima abbiamo assistito all’avvilente spettacolo di segretari di partito che contrattano con potenziali alleati e correnti interne sui nomi, oltre che il numero, dei singoli deputati e senatori. Poi abbiamo potuto leggere sui giornali nomi e cognomi dei «nostri» eletti nelle varie circoscrizioni. Naturale chiedersi: ma perché andare a votare se tanto hanno già scelto loro? Eppure ci sono tre motivi per cui io andrò a votare e invito a fare altrettanto chi mi annuncia la sua intenzione di non votare. Il primo motivo è che le liste fatte a tavolino sono, in realtà, molto informative. C’è molto da imparare leggendole con cura. Ci dicono quali sono le vere priorità dei partiti, cosa vogliono davvero fare in Parlamento. I primi posti alla Camera misurano il «rinnovamento» che ci viene distillato e quale sia la visione della nuova classe dirigente di chi si candida a guidare il nostro Paese. I primi posti al Senato, dove è più probabile che ci sia una maggioranza risicata, il grado di fiducia riposto dagli aspiranti premier in queste persone, la fedeltà che da questi si aspettano. Gli ultimi posti sia alla Camera che al Senato ci offrono i nomi dei non eletti sicuri. Sono persone che sanno con certezza di non essere elette. E’ bene guardare chi sono, perché avranno domani un credito da esigere. Di tutte queste informazioni possiamo fare tesoro nello scegliere il meno peggio. Vero, possiamo scegliere solo i partiti, non i candidati. Ma indubbiamente sappiamo più cose su questi partiti che in passato. Parlano eloquentemente le liste. Il secondo motivo per andare a votare è che i calcoli fatti a tavolino dai segretari di partito possono venire stravolti dal voto. Dipende ancora da noi, nonostante tutto. Spesso negli ultimi mesi le previsioni della vigilia, basate sulle intenzioni di voto, sono state clamorosamente smentite. Il caso più evidente è quello delle primarie del Partito democratico (quello degli Stati Uniti) in New Hampshire. Prevista da tutti una netta vittoria di Barack Obama, ha vinto, e non di poco, Hillary Clinton. Ma anche le previsioni fatte alla vigilia delle politiche in Spagna o delle municipali in Francia si sono rivelate in buona parte sbagliate. Niente pareggi nel primo caso, niente disfatte del partito del Presidente nel secondo. Perché i sondaggi sbagliano sempre più spesso nonostante i progressi delle tecniche di campionamento, l’esperienza accumulata in tutti questi anni e il crescente numero di indagini indipendenti (i cui errori dovrebbero compensarsi a vicenda)? Dubito che gli stessi sondaggisti abbiano una risposta a tale quesito. Altrimenti avrebbero da tempo trovato correttivi, dato che è in ballo il loro posto di lavoro. Proviamo comunque a richiamare il concorso di cause cui viene spesso attribuito il fallimento dei sondaggi e capire quanto possano incidere sul voto del 13 aprile. Vi è innanzitutto il declino della partecipazione al voto. C’è un esercito di non votanti e di schede bianche o nulle che sfugge ai sondaggi sulle intenzioni di voto e che può premiare o punire, anche all’ultimo minuto, un candidato o un partito. Poi c’è l’uso strategico dei sondaggi nel condizionare il voto. Questo ruolo è anch’esso legato alle dimensioni della non partecipazione: sondaggi che indichino un esito incerto delle elezioni possono mobilitare elettori poco motivati, convincendoli che il loro voto possa essere decisivo. Il sondaggio non si limita così a rilevare le opinioni, ma fa parte della stessa campagna elettorale e può essere strumentalizzato. Il cosiddetto «effetto bandwagon» (carrozzone) è una chiara indicazione di questo uso strategico dei sondaggi nel condizionare il voto. Infine, il voto è sempre meno prevedibile perché aumenta la percentuale di votanti disposti a cambiare partito se trovano un candidato o un programma convincente. La crisi delle ideologie ha fatto crescere il numero di questi «swing voters» un po’ ovunque. Ad esempio nelle ultime elezioni spagnole c’è stato un grande spostamento di voti dagli estremi al centro: Zapatero e Rajoy hanno raccolto insieme l’84% dei voti contro l’80% di quattro anni fa. Questi fattori sono oggi tutti presenti in Italia con una intensità che non ha precedenti. Il rifiuto del voto è trasversale, va ben oltre quel 25% di voti inespressi cui ci siamo ormai abituati. C’è una massa immensa che oscilla tra il voto e il non voto. Anche il centro-sinistra sembra avere imparato l’uso strategico dei sondaggi. E il confronto elettorale è meno ideologizzato che anche solo due anni fa. Questo significa potenzialmente molta più mobilità elettorale che in passato. Mentre chi gioca sull’identità del partito rischia di chiudere le porte in faccia a potenziali elettori provenienti da altri partiti, come è successo ai Popolari di Rajoy in Spagna. Conteranno, dunque, più che in passato le idee e meno gli schieramenti. Questo significa che l’Italia è oggi più coesa, più pronta per un sistema maggioritario. Potremmo utilizzarlo per rinnovare davvero la classe politica. Questo ci porta al terzo e ultimo motivo per andare a votare. Sul dopo voto incombe comunque il referendum sulla legge elettorale. Per fortuna che c’è il referendum! Vuol dire che, scegliendo bene i partiti questa volta, possiamo sperare di non andare mai più a votare con questa ignobile legge elettorale. Alcuni partiti hanno indubbiamente più responsabilità di altri nell’averci consegnato le liste bloccate. E non tutti vogliono davvero cambiare la legge elettorale. Ricordiamocelo nel segreto dell’urna.