Federico Fubini, Corriere della Sera 14/3/2008, 14 marzo 2008
MILANO
Se non altro per il nome che porta, è una delle vittime eccellenti della crisi finanziaria esplosa otto mesi fa. Ieri il Carlyle Group, il super- fondo di private equity che gestisce 81,1 miliardi di dollari, ha alzato bandiera bianca. Non ovviamente sulle proprie attività principali, quanto piuttosto su una propria creatura che va sotto il nome di Carlyle Capital Corporation (CCC) che investiva in titoli immobiliari e si era quotata in Borsa su Euronext per l’appunto otto mesi fa.
Posizioni da 16,6 miliardi di dollari del fondo, che formalmente è un’entità legale e operativa separata dalla casa madre, saranno quasi tutte smantellare per coprire i debiti. Il titolo è caduto di oltre il 90%. David Rubenstein, il fondatore e direttore generale di Carlyle, va così incontro a un fiasco che ne mette in discussione i rapporti con le banche finanziatrici. Le commissioni generate negli anni dalle quasi mille operazioni a debito del gruppo, effettuate per oltre 200 miliardi, non hanno reso in questi giorni più malleabili Lehman Brothers o Deutsche Bank. Loro (e altri) si sono rifiutati di dare più tempo a CCC, intrappolata ormai sotto il peso di posizioni in cui per ogni dollaro di capitale proprio del fondo se ne trovano 31 di debiti.
Ma è il modo stesso in cui Carlyle Capital si è trovata in questo vicolo cieco a suonare l’allarme per molti altri. Né la stima di ieri di Standard & Poor’s, secondo la quale le perdite da «subprime» sono quasi esaurite, migliora molto il quadro. Per vocazione infatti CCC si concentrava in investimenti su titoli del reddito fisso generati dalla cartolarizzazione di crediti immobiliari. All’apparenza niente di rischioso come i mutui «subprime»: CCC aveva in portafoglio titoli americani spalleggiati da mutui di agenzie quasi-pubbliche come Fannie Mae e Freddie Mac. Ma proprio quel modello ora è in questione, come ha ammesso lo stesso Gruppo Carlyle ieri: «Visti il basso rischio e i bassi proventi dei titoli legati alle agenzie semi- pubbliche, per realizzare sostanziosi guadagni era necessario un vasto investimento e, di conseguenza, una vasta quantità di debito».
Ma nella gelata del credito, l’incantesimo si è spezzato: anche i prezzi dei titoli originati da Fannie e Freddie sono caduti, quindi le banche a corto di liquidità hanno imposto a Carlyle Capital di reintegrare le garanzie o vedersi liquidare il portafoglio. E la linea da 150 milioni offerta dalla casa madre non è bastata. Per Rubenstein, il meticoloso finanziere che Michael Moore attaccò in «Fahrenheit 9/11» per i suoi rapporti (ormai chiusi) con George Bush padre e altri potenti repubblicani, una lezione da annotare: in tempi di «subprime», neppure il pedigree è una garanzia d’immunità.
David Rubenstein, al vertice del gruppo Carlyle
Federico Fubini