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 2008  marzo 12 Mercoledì calendario

A Baghdad la pace si paga in dollari. La Stampa 12 marzo 2008. E’ un giovane ufficiale con gli occhi chiari che ha ultimato il suo terzo soggiorno in Iraq

A Baghdad la pace si paga in dollari. La Stampa 12 marzo 2008. E’ un giovane ufficiale con gli occhi chiari che ha ultimato il suo terzo soggiorno in Iraq. A chi lo interroga nella lobby di Al Rachid nel cuore della zona verde ultrafortificata di Baghdad, Dexter F. ha un’esitazione. «Sorry, non ho il diritto di parlare per nome, lo sapete». Lo sappiamo. Da un anno circa, le autorità irachene fanno la stessa cosa e vietano ai loro poliziotti, soldati, e perfino ai medici di parlare ai giornali. In particolare sugli attentati, attacchi, numero delle vittime. Per fortuna, non tutti obbediscono. Paracadutista della 82ª aviotrasportata, il soldato americano infine si lascia cadere sulla panchetta di cuoio nero. L’avevamo incontrato all’inizio del 2007 in un Pizza Hut di Camp Victory, l’immensa base logistica che l’US Army ha costruito come una città di periferia texana vicino all’aeroporto internazionale di Baghdad. All’epoca Dexter iniziava un terzo soggiorno in Iraq che doveva durare 15 mesi. furibondo. «Francamente - si lascia scappare alla prima domanda - per fortuna me ne vado, non ne posso più. Ecco ora che si è obbligati a sorbire il tè con dei tipi che ci tiravano addosso appena sei mesi fa. E che forse lo fanno ancora quando scende la notte, vai a saperlo. Gente che ha ucciso i nostri, li ha torturati mutilati o decapitati. Che schifo…». Tutta Baghdad non parla che di questa gente, i «sahwas», i «figli dell’Iraq», i «comitati popolari di autodifesa» o ancora i «cittadini del posto impegnati» come li ha curiosamente ribattezzati l’ambasciata americana. Poco importa il nome, sono proprio gli stessi uomini, gli stessi gruppi, tutti con la stessa paga e la stessa missione, che sono arruolati da circa un anno per dare una mano, lucrando dieci dollari al giorno, a stabilire nei loro quartieri, nelle loro città o nelle loro tribù la Pax americana in Iraq. Pagare i nemici perché cessino i loro attacchi. Pagare i «bad guys», i «banditi», i «ribelli», gli «insorti», i «terroristi» perché cambino campo, diventino gli occhi e le orecchie dell’esercito, perché smettano, quanto meno, di sparare sui «boys» o di mettere ordigni esplosivi sotto i loro piedi. L’idea, che come dice il generale David Petraeus, comandante in capo del corpo di spedizione, «ha largamente contribuito» a far scendere del 60-70% per cento gli attacchi e gli attentati, era così semplice che alcuni, nelle cancellerie, si chiedono perché sono stati necessari quasi 4000 soldati morti, 29 mila feriti e secondo l’Oms almeno 150 mila morti iracheni per arrivarci. Nel gennaio del 2007 «i cittadini locali impegnati» erano meno di 1500 quando il presidente Bush, giocando il tutto per tutto, decise di spedire a partire da giugno e per un anno 30 mila soldati in più per rinforzare un corpo di spedizione stimato allora in 135 mila uomini. «I nostri deputati esigevano risultati immediati e visibili sul campo - si ricorda Dexter -. Bisognava cambiare tattica». L’idea sviluppata da Bush era di dare «un’opportunità» al governo dello sciita Al Maliki perché prendesse tutte le misure pratiche e legislative per «un’indispensabile riconciliazione nazionale». Per l’essenziale l’America spetta ancora oggi. Ma il famoso «surge», lo sforzo il cui successo o insuccesso occupa i dibattiti politici delle primarie americane, ha incontestabilmente funzionato perché il generale Petraeus ha saputo approfittare di due sviluppi molto inattesi: la sospensione dall’agosto del 2007 delle attività belliche dei 60 mila miliziani dell’Esercito del Mahdi creato dal predicatore sciita radicale Moqtada Al-Sadr e la sorprendente ascesa del fenomeno «sahwa». Divisi in circa 150 milizie ausiliarie , i «figli dell’Iraq» sono essenzialmente basati nella metà Nord del Paese. Eccetto il Kurdistan dove i poteri autonomi non li vogliono in alcun modo. I curdi non sono i soli a diffidare di questo fenomeno. «Surrettiziamente - si allarma un ministro sciita che dirige una grande amministrazione a Baghdad - è un nuovo esercito, un grosso cavallo di Troia, una milizia più potente e pericolosa di tutte quelle che assistevano già quando gli americani l’hanno creata. Ma che vuole davvero Washington? Ripetere gli errori commessi in Vietnam? Moltiplicare i signori della guerra che poi sarà impossibile disarmare?». Alaa Abou Ahmed, un tipo ben piantato quasi imberbe di «circa 30 anni», ex meccanico e componente pagato della milizia creata nel distretto «caldo» di Al-Dora nel Sud della capitale, ci spiega come «il risveglio» ha suonato per lui. Confessa peraltro senza complessi di aver «partecipato» alla pulizia etnica degli sciiti che abitavano fino a poco tempo fa il suo quartiere. «Sì, ne ho ammazzati alcuni - riconosce con un pallido sorriso furtivo -, mascalzoni in ogni caso. Mio fratello abita ora in una casetta che apparteneva a un killer di Al-Mahdi», la milizia di Al-Sadr accusata da numerosi sunniti cacciati dai vecchi quartieri misti della capitale di essere la punta di lancia del carnaio interconfessionale nel 2006 e in buona parte del 2007. «Ad aprile - riprende Abou Ahmed - il nostro sceicco ci ha riuniti alla moschea. Eravamo una cinquantina. Ci ha detto che la gente di Al-Dora, i commercianti onesti, gli ultimi medici, gli insegnanti, dicevano che ne avevano abbastanza dei combattimenti e dei raid degli apostati (gli sciiti). Ci ha detto che un ufficiale infedele aveva proposto di fermare i combattimenti, di mettere dei muri anti-bombe attorno ai nostri quartieri, di lasciare che fossimo noi stessi a proteggere le nostre strade e le nostre case. Ci ha detto che gli amrikis proponevano di organizzarci, di darci armi e veicoli in caso di bisogno. E anche di darci dei soldi, 14 mila dinari al giorno (circa sette euro). Alcuni tra noi hanno gridato al tradimento. Altri hanno accettato». Come molti di quelli passati alla collaborazione con «l’invasore», il capo del gruppo di Alaa, un certo Kashgul Saleh, era colonnello nei servizi di sicurezza interna, i «mukhabarat» di triste memoria, di Saddam Hussein. «Che abbiamo da perdere? - continua il nostro interlocutore -. La maggior parte di noi ha accettato che gli infedeli prendano foto e impronte digitali per catalogare la loro identità nei loro computer in cambio di badge che ci permettono di uscire armati. Non io. Quando esco uso quello di uno dei miei cugini». Le liste possono cadere nelle mani dei Mujaheddin. Oppure in quelle degli «iraniani» che governano e di cui bisognerà occuparsi, un giorno o l’altro. Da ottobre almeno duecento miliziani dei comitati sahwas, tra cui alcune decine di sceicchi clanici, sono stati assassinati, talora su ordine di Al Qaeda. Per alcuni è una nuova guerra civile tra i sunniti quella che ormai è in corso in Iraq. «I sawhas sono pressoché tutti infiltrati o complici dei ribelli», ripetono senza posa gli ufficiali dell’esercito e della polizia che sono quasi tutti sciiti e che diffidano dei «figli d’Iraq» come della peste. I militari americani ammettono che ci possono «essere dei traditori» all’interno dei loro nuovi gruppi di collaboratori. Molte decine tra loro sono stati arrestati per esazioni ai danni dei civili o «morti extragiudiziarie». Una cosa è certa: il processo che a partire dall’aprile del 2003 portava a liquidare l’esercito e i servizi di sicurezza nazionale, come a vietare qualsiasi impiego pubblico agli aderenti del partito Baas, è completamente capovolto. Ad Adhamyeh, uno degli ultimi bastioni sunniti di Baghdad, il nuovo uomo forte era un ex ufficiale di polizia, il colonnello Ryad al Sammarai. Ucciso il 7 gennaio in un attentato suicida, è stato immediatamente rimpiazzato da un solido marcantonio in veste di cuoio, chiamato Farouk Abdou Sattar Al Obeidi. Con soddisfazione dei generali americani, «l’opera del martire eroico», come dicono gli avvisi mortuari incollati sui muri decrepiti e sforacchiati dalle pallottole, continua. Le centinaia di miliziani che aveva ingaggiato per «difendere» i luoghi continuano «il lavoro». Lo si può vedere ogni ora del giorno e della notte: alcuni in abiti civili con keffiah rosse e bianche, altri a testa nuda in camicia vagamente caki, kalashnikov in pugno, alzare sbarramenti attorno alle vie e ai luoghi strategici, controllare auto e passanti. A Fazl, altro quartiere centrale della capitale, Adel Al - Mashadani, ex ufficiale della Guardia repubblicana dell’ex dittatore, è ormai «il leone di Baghdad». Al servizio degli americani. Il «Leone» controlla molte centinaia di armati e afferma per chi vuol capire che «mai l’armata dei persiani che controllano l’Iraq entrerà» nel suo quartiere. Ad Amrya è un certo Abu Ahmed ex capitano dell’esercito baatista ed ex comandante di una unità dell’Armata islamica in Iraq, una delle maggiori organizzazioni della «resistenza», che dirige «il risveglio» locale. Ramadi, Bakuba, Diyala, è quasi ovunque la stessa cosa ormai. E le frizioni che talvolta si trasformano in scontri armati con la polizia o l’esercito iracheno si moltiplicano. La maggioranza sciita che controlla il governo dopo le elezioni del 2005 è restia al voltafaccia americano. Dopo un anno che il generale Petraeus richiede l’integrazione di almeno un quarto dei suoi ausiliari sunniti nell’esercito e nella polizia, meno di 12 mila tra loro sarebbero «sul punto» di esservi accettati. All’inizio assai critico del fenomeno, il primo ministro Maliki ha attenuato la loro posizione. Quello che pensa davvero traspare dalle loro decisioni. Non si parla proprio di accordare agli americani fino a 100 mila ausiliari. Nessun quartier generale del «Risveglio» a Baghdad, niente armamenti pesanti, nessun veicolo blindato. Anche la ripresa delle forniture pubbliche (acqua corrente, luce, ricostruzione delle scuole, trasporti, nettezza urbana), promessa dall’esercito americano ai loro ausiliari nelle zone tribali, tarda a essere messa in pratica. Lo sviluppo dei sahwas ha dimostrato la sua efficacia sul terreno. Nella provincia di Al Anbar gli attacchi antiamericani sono diminuiti del 90 per cento. I generali tuttavia si proibiscono di gridare vittoria e il controammiraglio Greg Smith mette in guardia «contro ogni trionfalismo intempestivo». Il generale Petraeus chiede che una volta che la maggior parte dei 30 mila rinforzi saranno rientrati a casa da oggi a luglio, il contingente sia mantenuto «almeno» a 135 mila uomini per «tutto il 2008». A che punto sarà allora il fenomeno sahwa? Mistero. «Tutta l’impresa è una scommessa», si lascia andare Labid Abbawi, sottosegretario di Stato agli Esteri. Un partito del «Risveglio» sta per essere creato. Alcuni chiedono già poltrone ministeriali. La chance della maggioranza sciita, per ora, è che la nuova armata di supporto non obbedisce a un capo ma a 100, a mille. E’ disunita, frazionata, divisa. «Grazie a dio», ci si rassicura nella zona verde. Patrice Claude Copyright «Le Monde»