Il Sole 24 ore 2 marzo 2008, Vladimir Nabokov, 2 marzo 2008
La Pasqua della profuga. Il Sole 24 ore 2 marzo 2008. Quel giorno una solitaria e anziana signora svizzera di nome Joséphine, oppure Giosefina L’vovna, come la chiamava la famiglia russa con la quale un tempo aveva vissuto per dodici anni, comprò una mezza dozzina di uova, un pennello nero, e due purpurei dischetti di acquerelli
La Pasqua della profuga. Il Sole 24 ore 2 marzo 2008. Quel giorno una solitaria e anziana signora svizzera di nome Joséphine, oppure Giosefina L’vovna, come la chiamava la famiglia russa con la quale un tempo aveva vissuto per dodici anni, comprò una mezza dozzina di uova, un pennello nero, e due purpurei dischetti di acquerelli. Quel giorno i meli erano in fiore. Un cartellone del cinema all’angolo si rifletteva capovolto sulla superficie liscia di una pozzanghera e al mattino le montagne dall’altra parte del lago Lemano erano tutte velate di una serica foschia, come i fogli opachi di carta di riso che proteggono le stampe nei libri di pregio. La foschia preannunciava una bella giornata, ma il sole sfiorò appena i tetti delle piccole, sbilenche case di pietra e i fili metallici bagnati di un tram giocattolo, per poi sciogliersi di nuovo nella bruma. La giornata si rivelò calma, con nuvole primaverili, mentre, verso sera, dalle montagne prese a spirare un vento gelido e molesto, e Joséphine, sulla strada di casa, ebbe un tale accesso di tosse che, quando già era vicino alla porta, perse per un attimo l’equilibrio, il suo viso si fece rosso, e dovette appoggiarsi all’ombrello strettamente arrotolato, sottile come una nera canna da passeggio. La camera era già buia. Quando accese la lampada, questa illuminò le sue mani, magre, con la pelle tesa e lucida, coperta da macule di vecchiaia, e con le unghie disseminate di puntini bianchi. Joséphine dispose i suoi acquisti sul tavolo, gettò cappotto e cappello sul letto, versò dell’acqua in un bicchiere, mise un pince-nez con la montatura nera che dava un’espressione severa ai suoi occhi grigio scuro sotto le folte funeree sopracciglia che si congiungevano sulla sella del naso, e cominciò a dipingere le uova. Per qualche ragione il colore carminio non attaccava, forse avrebbe dovuto comprare qualche vernice chimica, ma non sapeva cosa chiedere, la imbarazzava troppo spiegare. Le venne in mente di andare a consultare un farmacista di sua conoscenza, intanto avrebbe potuto comprare l’aspirina. Si sentiva così fiacca, e i bulbi oculari le dolevano per la febbre. Aveva voglia di starsene seduta tranquillamente, di pensare tranquillamente. Quel giorno era il Sabato Santo russo. Una volta, i venditori ambulanti sulla Prospettiva Nevskij vendevano un tipo speciale di pinze. Quelle pinze erano utilissime per pescare le uova dal caldo liquido blu scuro o arancione. E c’erano i cucchiai di legno: sbattevano con un suono leggero e compatto contro il vetro spesso dei barattoli dai quali saliva il vapore inebriante della tintura. In seguito, le uova venivano impilate per farle asciugare, rosso col rosso, verde col verde. Poi c’era anche un altro modo di colorarle: avvolgerle in strette strisce di panno dentro le quali erano state collocate decalcomanie che sembravano campioni di carta da parati. Una volta bollite, quando il servitore riportava l’enorme pentola dalla cucina, com’era divertente slegare il filo e togliere le maculate, marmoree uova dal tessuto umido che sprigionava un soffice vapore, l’odore dell’infanzia. L’anziana signora svizzera ebbe una strana sensazione ricordando che, quando viveva in Russia, provava nostalgia e spediva bellissime lettere, lunghe e malinconiche, agli amici in patria, raccontando come si sentisse sempre respinta e incompresa. Tutte le mattine dopo colazione andava a passeggio nel grande landò aperto con la sua pupilla Hélène; e accanto al voluminoso posteriore del cocchiere, somigliante a una gigantesca zucca blu, c’era la schiena gobba dell’anziano valletto, tutto bottoni dorati e coccarda. Le sole parole russe che conosceva erano kutcer, tisc-tisc, nitcevo. Aveva lasciato San Pietroburgo, con un vago senso di sollievo, appena era scoppiata la guerra. Le sembrava che da quel momento in poi avrebbe trascorso deliziose serate senza fine chiacchierando con gli amici nell’accogliente cittadina natale. Ma la realtà si rivelò ben diversa. La vera vita – cioè quella parte della vita in cui ci si abitua con maggiore intensità e partecipazione alle persone e alle cose – era trascorsa là, in Russia, che lei aveva inconsciamente cominciato ad amare e a capire, e dove Dio solo sa che cosa stava succedendo... E l’indomani cadeva la Pasqua ortodossa. Joséphine sospirò rumorosamente, si alzò e chiuse meglio la finestra. Consultò l’orologio nero appeso alla catenina di nichel. Doveva fare qualche cosa con quelle uova: erano destinate in dono ai Platonov, un’anziana coppia russa che di recente si era stabilita a Losanna, una cittadina che a lei appariva allo stesso tempo familiare e straniera, dove era difficile respirare, dove le case si ammucchiavano disordinatamente, come capitava, lungo le vie ripide e piene di svolte. Si fece pensierosa, ascoltando il ronzio nelle orecchie, poi si scosse da quel torpore, versò una fiala di inchiostro viola in un piccolo recipiente di latta e vi immerse cautamente un uovo. Pian piano si aprì la porta. La sua vicina, Mademoiselle Finard, entrò silenziosa come un topo. Anche lei aveva fatto la governante. Era una donna piccola e magra, con corti capelli tutti d’argento. Si avvolgeva in uno scialle nero, adorno di perline di vetro iridescenti. Appena sentì i suoi passi da topo, Joséphine coprì goffamente con un giornale il barattolo e le uova che si stavano asciugando sulla carta assorbente. «Cosa desidera? Mi dà fastidio quando la gente entra così, all’improvviso...». Mademoiselle Finard gettò un’occhiata di sbieco al volto turbato di Joséphine e non disse nulla, però era profondamente offesa e senza una parola lasciò la stanza con gli stessi passetti affettati. Intanto le uova erano diventate di un viola velenoso. Aveva deciso di dipingere, su un uovo al naturale, le due iniziali pasquali «X» (Ch) e «B» (V) come si usava fare da sempre in Russia. La prima lettera, «X», le era riuscita bene, ma la seconda non se la ricordava esattamente e alla fine, invece di una «B», tracciò un assurdo, storto «/oI». Quando il colore fu del tutto asciutto, avvolse le uova con soffice carta igienica e le mise dentro la sua borsa di cuoio. Ma che fiacchezza tormentosa... Aveva voglia di sdraiarsi nel letto, di bere caffè caldo, di stendere le gambe... Aveva la febbre e le palpebre pulsavano... Quando uscì, il secco crepitio della tosse ricominciò a salirle in gola. Fuori era buio, umido, deserto. I Platonov abitavano vicino. Stavano prendendo il tè. Platonov, che era calvo, aveva una barbetta rada e indossava una camicia alla russa di serge, abbottonata sul lato; era intento a riempire di tabacco giallo alcune cartine di sigaretta quando Joséphine bussò con il pomello del parapioggia ed entrò. «Oh, buonasera, Mademoiselle...». Lei si sedette accanto a loro e cominciò, senza tatto e con grande loquacità, a parlare dell’imminente Pasqua russa. Tirò fuori a una a una le uova viola dalla borsa. Platonov notò l’uovo con le lettere lilla «X./oI.» e scoppiò a ridere. «Cosa le è venuto in mente di appiccicare quelle iniziali ebree?». Sua moglie, una signora grassottella con una parrucca gialla e occhi malinconici, sorrise di sfuggita. Cominciò a ringraziare Joséphine con tono indifferente, strascicando le vocali in francese. Joséphine non capiva perché stavano ridendo. Avvertì una sensazione di caldo e tristezza. Ricominciò a parlare, ma sentiva che quel che diceva era fuori luogo, tuttavia non riusciva a trattenersi: «Sì, in questo momento non c’è Pasqua in Russia... Povera Russia! Ah sì, ricordo come la gente usava baciarsi per le strade. E la mia piccola Hélène quel giorno sembrava un angelo... Oh, mi capita spesso di piangere la notte intera, quando penso al vostro meraviglioso paese...». I Platonov trovavano sempre spiacevoli queste conversazioni. Loro non parlavano mai con gli estranei della loro patria perduta, così come persone ricche ma finite in rovina nascondono la loro miseria e diventano ancora più altere e inavvicinabili. Per questa ragione Joséphine nel suo intimo sentiva che non provavano alcun amore per la Russia. Di solito quando faceva visita ai Platonov pensava che se soltanto avesse cominciato a parlare della bella Russia con le lacrime agli occhi, loro sarebbero subito scoppiati in singhiozzi e si sarebbero messi a ricordare, a raccontare, e che loro tre sarebbero rimasti così tutta la notte a rievocare, a piangere, a stringersi le mani l’un l’altro. Ma in realtà ciò non accadeva mai... Platonov annuiva con la sua barbetta, cortese ma indifferente, mentre sua moglie voleva sempre scoprire dove si poteva comprare del tè o del sapone a buon prezzo. Platonov ricominciò ad arrotolare le sue sigarette. La moglie le riponeva ordinatamente in una scatola di cartone. Ambedue avevano avuto l’intenzione di fare un pisolino fino al momento di andare alla messa della vigilia nella chiesa russo-ortodossa dietro l’angolo. Volevano stare in silenzio, pensare alle loro cose, parlare soltanto con gli sguardi o con sorrisi speciali, apparentemente distratti, del figlio che erastatouccisoin Crimea, o di varie sciocchezze pasquali, o della chiesa nel loro quartiere sulla Pocvtamskaja. E adesso era arrivata quella vecchia chiacchierona sentimentale con i suoi ansiosiocchi grigi, piena di sospiri che avrebbe potuto benissimo restarsene lì finché loro non avessero dovuto uscire. Joséphine tacque, sperando avidamente che forse l’avrebbero invitata ad accompagnarli in chiesa, e, dopo, a rompere il digiuno mangiando con loro. Sapeva che il giorno prima i Platonov avevano cucinato delle torte pasquali russe, e anche se lei ovviamente non le poteva assaggiare per via della febbre, già il fatto di essere invitata sarebbe stato così gradevole, così accogliente, così festivo. Platonov digrignò i denti e soffocando uno sbadiglio diede uno sguardo furtivo al polso, al quadrante sotto la griglia. Joséphine comprese che non sarebbe stata invitata. Si alzò. «Avete bisogno di un riposino, miei cari amici, ma c’è qualcosa che voglio dirvi prima di andarmene». Avvicinandosi a Platonov, che si era alzato pure lui, esclamò in un russo squillante e scorretto: «Kristose Voskrese». Questa era la sua ultima speranza di suscitare uno scoppio di calde, dolci lacrime, baci pasquali, invito a rompere il digiuno insieme... Invece Platonov raddrizzò soltanto le spalle e disse con una risatina pacata: «Mademoiselle, lei ha proprio una bellissimapronuncia russa». Una volta in strada, lei scoppiò in lacrime, e camminò con il fazzoletto premuto sugli occhi, barcollando un poco e battendo leggermente sul marciapiede il suo serico ombrello che ricordava un bastone. Il cielo era cavernoso e inquieto, con una luna torbida, e nuvole che sembravano ruderi. I piedi all’infuori di un riccioluto Charlie Chaplin si riflettevano in una pozzanghera accanto a un cinematografo illuminato. E Joséphine, mentre camminava sotto gli alberi lacrimosi che stormivano in riva al lago simile a un muro di bruma, vide una lanterna color smeraldo che brillava fiocamente sul limitare di una piccola darsena, e qualcosa di grosso e bianco che si arrampicava dentro una barca nera alla fonda laggiù. Mise a fuoco la vista attraverso le lacrime: un enorme vecchio cigno si gonfiò, agitò le ali e, all’improvviso, maldestro come un’oca, varcò pesantemente il bordo. La barca traballò; cerchi verdi si allargarono sull’acqua nera e oleosa che si fondeva con la nebbia. Joséphine rifletté se non era il caso di andare in chiesa comunque. Ma a Pietroburgo l’unica chiesa che avesse mai frequentato era quella rossa, la cattolica, in fondo alla Morskaja, e adesso si vergognava di entrare in una chiesa ortodossa, dove non sapeva quando segnarsi con la croce o come tenere le dita, e dove qualcuno avrebbe potuto fare qualche commento. Rabbrividiva. Nella sua testa una confusione di fruscii, di alberi che schioccavano, di nuvole nere e di ricordi pasquali: montagne di uova variopinte, il tenebroso luccichio della cattedrale di Sant’Isacco. Assordata e annebbiata, riuscì in qualche modo ad arrivare a casa e salire le scale, urtando con la spalla il muro, e poi, vacillante, con i denti che battevano, cominciò a svestirsi. Si sentiva più debole e cascò sul letto con un sorriso beato, stupefatto. Il delirio, tempestoso e possente come un respiro di campane, la sopraffece. Montagne di uova variopinte si spargevano facendo cin cin tra loro. Il sole – oppure era una pecora dalle corna dorate fatta tutta di burro – irruppe dalla finestra e cominciò a crescere, riempiendo la stanza di un giallo torrido. Intanto, le uova si arrampicavano e rotolavano giù lungo piccole, lucide assi di legno, sbattendo l’una contro l’altra, e i gusci si spaccavano, il bianco si macchiava di chiazze cremisi. Rimase tutta la notte in preda a quel delirio, e solo il mattino dopo Mademoiselle Finard, ancora offesa, entrò, sussultò, e corse via spaventata in cerca di un dottore. «Polmonite lobare, Mademoiselle». Attraverso le ondate di delirio scintillavano i fiori sulla carta da parati, i capelli argentei della vecchietta, gli occhi placidi del dottore; tutto scintillava e si dissolveva. E di nuovo un fremente ronzio gioioso ingolfò la sua anima. Il cielo di un azzurro da favola sembrava un gigantesco uovo dipinto, le campane rombavano e qualcuno che assomigliava a Platonov, o forse al padre di Hélène, entrava nella stanza – e appena entrato apriva un giornale, lo metteva sul tavolo, e si sedeva un po’ più in là – gettando uno sguardo ora a Joséphine, ora alle pagine bianche con un sorrisetto significativo, modesto, e un po’ furbesco. Joséphine sapeva che in quel giornale c’era qualche notizia meravigliosa ma, malgrado tutti i suoi tentativi, non riusciva a decifrare le lettere cirilliche del titolo in nero. L’ospite continuava a sorridere e a gettare sguardi eloquenti nella sua direzione, e sembrava proprio sul punto di rivelare il segreto, di confermare la felicità che lei pregustava; ma, lentamente, l’uomo si dissolse e l’incoscienza scese su di lei come una nuvola nera. Poi di nuovo si mescolarono incubi variopinti. Il landò viaggiava sul lungofiume, Hélène leccava il colore caldo e intenso da un cucchiaio di legno, la distesa della Neva scintillava, lo zar Pietro improvvisamente saltò giù dal suo bronzeo destriero i cui zoccoli anteriori toccavano simultaneamente terra. Lo zar si avvicinò a Joséphine e, con un sorriso sul volto verdastro e tempestoso, la abbracciò, le diede un bacio su una guancia, poi sull’altra. Le sue labbra erano morbide e calde, e quando le sfiorò la guancia per la terza volta, lei si dimenò gemendo di gioia, aprì le braccia, e di colpo si calmò. Al mattino del sesto giorno di malattia, sul presto, dopo un’ultima crisi, Joséphine ritornò in sé. Alla finestra splendeva un cielo bianco e una pioggia verticale frusciava e si increspava nei rigagnoli. Un ramo bagnato si protendeva davanti ai vetri, e alla sua estremità una foglia tremolava sotto il picchiettio della pioggia, si piegava in avanti e lasciava cadere una grande goccia dalla punta della sua verde lama, poi la foglia si rimetteva a tremare e un altro umido raggio rotolava giù, quindi un lungo, brillante orecchino dondolava e cadeva. A Joséphine sembrava che la frescura piovigginosa le scorresse nelle vene. Non riusciva a distogliere gli occhi da quel cielo zampillante. E la pioggia che stillava languida era così piacevole, la foglia tremava in modo così commovente che le veniva da ridere; la risata la colmò tutta, ma era ancora silenziosa, correva per tutto il corpo, solleticava il suo palato, ed ecco, stava per scoppiare... A sinistra, nell’angolo, qualche cosa sfregava e sospirava. In preda al fremito della risata che stava crescendo dentro di lei, distolse lo sguardo dalla finestra e voltò il capo. La vecchietta stava a faccia in giù sul pavimento, con il suo fazzoletto nero. I corti capelli argentei si agitavano rabbiosamente mentre lei faticava indaffarata, spingendo la mano sotto il comò, dove era rotolato il suo gomitolo di lana. Il filo nero andava dal comò alla sedia sulla quale erano rimasti gli aghi e un calzino lavorato a metà. Alla vista della schiena nera di Mademoiselle Finard, di come dimenava le gambe, degli stivaletti abbottonati, Joséphine scoppiò in una risata, agitandosi mentre ansimava e tubava sotto il piumino, con la sensazione di essere risorta, di essere tornata da nebbie lontane di felicità, di meraviglie, di splendore pasquale. Vladimir Nabokov