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 2008  marzo 02 Domenica calendario

Il Belgio, l’Ingegnere e l’Avvocato. Il Sole 24 ore 2 marzo 2008. «Dce Benedetti si compra un terzo del Belgio»

Il Belgio, l’Ingegnere e l’Avvocato. Il Sole 24 ore 2 marzo 2008. «Dce Benedetti si compra un terzo del Belgio». Un terzo del Belgio? E che mai avrà fatto Carlo De Benedetti per insidiare in questo modo l’autonomia di un Paese sovrano? Siccome quel titolo campeggiava a nove colonne su Repubblica, e Repubblica era il giornale dell’Ingegnere, lì per lì nessuno ci dette troppo peso. Sarà un’esagerazione, una spacconata, l’ennesima compiaciuta iperbole che il quotidiano fondato e diretto da Eugenio Scalfari si era inventato per celebrare le gesta del suo editore-padrone. Un terzo del Belgio? Quel titolo così enfatico costrinse comunque i cronisti in una fredda mattina del gennaio 1988 ad andare a vedere cosa mai fosse questa Société Générale de Belgique su cui l’allora presidente dell’Olivetti aveva messo gli occhi. Era successo che, tanto felpatamente da non lasciare traccia alcuna, ne avesse rastrellato quasi un 20% e si stesse preparando a comprare il resto. Sociétè Générale de Belgique, acronimo Sgb, oggetto misterioso: mai sentita. All’indomani dell’annuncio frotte di cronisti milanesi stazionavano nell’ufficio di Claudio Demattè, allora rettore della Bocconi e forse il più internazionale degli economisti, in cerca di notizie. «Professore, davvero con questa roba De Benedetti si compra un terzo del Belgio?». Meraviglia, sorpresa. Dalle nebbie dell’ignoranza emerse un tesoro nascosto, un vaso di pandora che aveva dentro di tutto: petrolio, energia, miniere, banche, assicurazioni, compagnie marittime, fabbriche d’armi, distribuite su un dedalo di oltre mille società. «Madonna, questa è peggio dell’Iri», commentò allora qualcuno di fronte al fitto reticolo di aziende che si dipanava al di sotto della holding. Vuoi vedere che all’Ingegnere è riuscito il colpaccio maestro? Occorre sapere che, all’epoca, De Benedetti era il più internazionale degli industriali italiani. Più di Leopoldo Pirelli, la Comit e le Generali, che come lui si erano imbarcate in una serie d’avventure Oltralpe (tutte poi finite male). Persino più di Gianni Agnelli, che di internazionale aveva sì un grande intreccio di amicizie e rimandi, ma i piedi e la testa l’aveva saldamente a Torino. Da dove, dalla sua villa in collina, ogni domenica mattina chiamava il vicino che per cento giorni era anche stato suo dipendente in Fiat sfottendolo amabilmente : «Che fa Ingegnere, l’Italia le va stretta?». In effetti, sembrava che per le ambizioni di De Benedetti, che parlava un ottimo inglese ed era coccolato dal Financial Times, il Paese fosse troppo angusto. Possedeva l’Olivetti, ci aveva appena portato dentro con colpo ad effetto gli americani di At&t, ma non gli bastava. Bisognava allargarsi, guardare fuori, perché s’intuiva che di lì a poco il vero teatro della competizione sarebbe stato l’Europa. Allora via all’espansione oltreconfine, prima con la Cerus in Francia, dove aveva appena preso con il beneplacito dell’establishment il controllo della Valeo. Poi con la Cofir in Spagna e la Cofinec in Ungheria. Passo dopo passo, voleva costruire un mosaico di holding internazionali di cui la Sgb avrebbe dovuto essere lo snodo cardine, il tripudio finale. Così gli aveva suggerito Alain Minc, allora suo gran consigliere, un ragazzetto brillante con la faccia da professorino che la sa lunga, bravo a pensarle ma molto meno a farle, avrebbe poi detto di lui quando, dopo l’avventura belga, i rapporti si interruppero burrascosamente (per la cronaca, oggi sono ancora in causa per una storia di appropriazione indebita). A quel tempo De Benedetti era la mente e il giovane, supponente Minc il braccio. E la Sgb una, Vieille Dame dormiente sotto la protettiva ala della famiglia reale, preda ghiotta per chi ci avesse messo gli occhi addosso osando un po’ di sfrontatezza. Fu così che con quel 20% messo da parte senza colpo ferire De Benedetti si presentò da René Lamy, presidente della Sgb, con la sua brava scatola di cioccolatini Peyrano sotto il braccio. Voleva fare la persona trasparente, voleva che ancora una volta non si sparasse addosso al solito italiano che entra in casa senza chiedere permesso e si comporta da cafone. Non l’avesse mai fatto, perché quella cortesia gli sarebbe costata la pelle. La signora è vecchia e addormentata, il suo presidente non è un fulmine, ma capisce al volo che sta rischiando la poltrona. Quando De Benedetti esce da casa sua con il boccone della cena di traverso, Lamy riunisce di gran fretta i consiglieri d’amministrazione e vara un aumento di capitale per rendere più ostica la scalata. Tra loro chiama subito quello più in vista, Etienne Davignon, un boiardo a cavallo tra la finanza e la politica, visto che era stato capo di gabinetto di Paul-Henri Spaak e vice presidente della Commissione europea, e gli chiede aiuto. Il barone capisce al volo che il povero Lamy da solo non ce l’avrebbe mai fatta a tirarsi fuori, ma che bisognava procurarsi un cavaliere bianco e una buona banca per alzare le barricate. Il primo lo trova a Parigi, in quella Compagnie de Suez di cui, ironia della sorte, lo stesso De Benedetti è amministratore. Il secondo glielo suggerisce Gianni Agnelli: «Caro Etienne, chiami il mio amico Michel-David Weill alla Lazard. lì che non vede l’ora di darvi una mano», gli dice l’Avvocato. Ma cosa c’entra Agnelli e perché mette becco in una vicenda che non lo riguarda, e lo fa per di più mettendo i bastoni tra le ruote al suo vicino di casa? Perfida ammirazione, ecco cosa lo spinge. Quando i telegiornali aprono con la notizia della spedizione in Belgio, l’allora presidente della Fiat non si nega: «Quello di De Benedetti è un gran colpo di teatro» commenta. Da allora, gli telefona ogni giorno di prima mattina: «Che fa Ingegnere, l’Italia le va stretta? E quante azioni ha comprato oggi? Però stia attento a non fare il passo più lungo della gamba. E soprattutto si ricordi quel che dice Cuccia: io sono il Cervino, voi le Prealpi». Per tutta risposta De Benedetti, non meno immaginifico, a quanti gli chiedevano se puntasse a scalzare la supremazia dell’Avvocato rispondeva perfido che no, Agnelli era il Re Sole e lui soltanto un borghese, ben sapendo che fine orrenda era toccata alla monarchia di Francia. Sta di fatto che in Belgio successe di tutto, e visto che non esisteva una legge sull’Opa fu caccia aperta e molto borderline alle azioni Sgb in circolazione. In un certo senso, a De Benedetti capitò quel che occorse a Mario Schimberni quando si lanciò all’assalto di Montedison: tutti i pacchetti di azioni, anche i più piccoli, risultavano decisivi per una battaglia che si combatteva sul filo di risicatissime maggioranze. E quando si combatte all’ultimo sangue, non si esita a vendere l’argenteria di casa pur di incamerare munizioni buone per comprare. In quell’occasione, l’Ingegnere impegnò l’argenteria di famiglia pur di far sua la posta, e perse sul filo di lana: 51 contro 49, dopo aver rifiutato, per insipienza di Minc, un pacco di azioni fiamminghe di Sgb che, se pur comprate a quattro volte i prezzi di Borsa, gli avrebbero consentito di aggiudicarsi la partita. In quei mesi la sua popolarità era all’apice, i giornali di mezzo mondo lo chiamavano il Condottiero, e lui non si negava uscite ad effetto che i giornali prontamente rimbalzavano: «Sono venuto a fischiare la fine della ricreazione» disse baldanzoso dopo uno dei suoi tanti sbarchi a Bruxelles, citando De Gaulle e facendo la gioia dei giornalisti al seguito che già si ritrovavano il titolo bell’e fatto. Ed era una continua spola tra Bruxelles e Parigi, dove Jacques Delors e il suo capo di gabinetto Pascal Lamy lo chiamavano per sentire cosa pensasse di Europa e di liberalizzazioni. E di telefoni, visto che lo standard Gsm muoveva i primi passi e De Benedetti qualche idea e ambizione nel settore ce l’aveva. Presi dal turbinio e dai colpi di scena della battaglia con Suez, a nessuno passò mai per la testa di chiedergli cosa volesse farsene di questa benedetta Sgb una volta piantataci la sua bandiera. Lo rivelò solo molti anni più tardi, quando oramai la vicenda era un lontano ricordo. La sua intenzione era quella di vendere tutto, miniere, banche, assicurazioni a quant’altro, e di tenere solo Electrabel, l’azienda elettrica. Corsi e ricorsi, la stessa con cui poi avrebbe stretto un’alleanza in Sorgenia. E ad essa avrebbe affiancato una holding nuova di zecca, Electratel, che sarebbe diventata quel che poi fece con Omnitel, capofila di tutte le attività di telefonia mobile. Insomma, di tutto quel coacervo di società De Benedetti voleva cavar fuori quel che più aveva margini di sviluppo, il resto mollarlo tutto. Esattamente come poi fece Suez, con una mossa che di fatto segnò la sparizione dieci anni dopo della Vieille Dame come holding. Solo che, potendo, lui lo avrebbe fatto quindici anni prima. L’avventura belga si concluse con un’infuocata assemblea nel giugno dello stesso anno, il 1988. Per l’occasione fu montata a Bruxelles una struttura ad hoc, un tendone bianco per contenere la straripante folla di osservatori e partecipanti. Su un improvvisato tavolo erano schierati tutti i maggiorenti della Sgb, a partire da Lamy e Davignon, con in bocca la sua ineffabile pipa. Per Suez c’erano il presidente Renaud de la Genière, l’ad Gerard Worms, e il direttore generale Patrick Ponsolle, oggi Pdg di Eurotunnel, e Jean Antoine Galignani, allora numero uno della banca Indosuez, che ora ritroviamo nei panni di commissario che marca a vista Daniel Bouton nella mal ridotta Société Générale. Insomma, una bella galleria di enarchi. L’Ingegnere era solo in mezzo alla platea. Poco distante da lui Gianluca Braggiotti, fratello di Gerardo, allora manager Olivetti. A un certo punto si alzò e così iniziò il suo discorso: «Mi chiamo Carlo De Benedetti, e sono un industriale torinese...». Discorso di commiato, perché sapeva bene ciò che tutti sapevano: che la battaglia era persa, che il sogno di conquistare un terzo del Belgio era tramontato, e che d’ora in avanti avrebbe dovuto lottare con tutte le sue forze per cercare di uscire da quel pantano dove stava immerso fino al collo. La sera prima lo aveva raggiunto nella sua camera d’albergo di Bruxelles la solita telefonata di Agnelli: «Che fa Ingegnere? Volevo dirle... Guardi che ha perso?». E lui: « probabile, avvocato». «No, no, è sicuro. Davignon non possiederà la sua abilità finanziaria ma mi ha detto che sa fare le addizioni e lei non ha scampo». L’antipatico Davignon aveva ragione: alla conta del giorno dopo fu 51 a 49, nonostante tutti gli italiani presenti si fossero illusi che l’Ingegnere avrebbe fatto il miracolo, e che nottetempo quel pacchetto di azioni Sgb in mano ai fiamminghi fosse finito dalla sua parte. Tout s’Etienne, e di lì a poco, ricompensa per il buon lavoro svolto, Davignon fu accolto in pompa magna nel consiglio d’amministrazione della Fiat. Agnelli, rassicurato e compiaciuto, continuò per molte domeniche a telefonare al suo vicino di casa senza venir mai meno all’irrinunciabile sfottò: «Che fa Ingegnere? Si ricordi che io sono il Cervino, e voi le Prealpi». De Benedetti sudò quattro camicie, bloccò su ogni minuzia il cda della Sgb tanto che a un certo punto, pur di levarselo di torno, quelli di Suez liquidarono il suo 49% pagandolo più di quanto avesse speso, ma smise per sempre i panni del Condottiero e tornò ad occuparsi di Olivetti e Repubblica. Adesso, che è tutto così lontano, che molti dei protagonisti di allora non ci sono più, e Neige, Neve, la figlia di Rodolfo che lo ha reso per la prima volta nonno proprio in piena campagna belga ha compiuto vent’anni, l’Ingegnere parla con distacco di quell’avventura. Con gli amici che proprio di recente gli hanno chiesto una commemorazione di quegli anni è stato lapidario: «Sono stato un genio nell’ideazione, un coglione nell’esecuzione». A quasi 74 anni, con quel sano distacco dalle cose che solo la conquistata maturità ti sa dare, in fondo ci si può anche dare del genio-coglione, ossimoro apparente. E sorridere. Paolo Madron