Il Sole 24 ore 2 marzo 2008, Donato Masciandaro, 2 marzo 2008
Un fenomeno conveniente anche alle classi politiche. Il Sole 24 ore 2 marzo 2008. Per ballare il tango bisogna essere in due, dice un proverbio anglosassone
Un fenomeno conveniente anche alle classi politiche. Il Sole 24 ore 2 marzo 2008. Per ballare il tango bisogna essere in due, dice un proverbio anglosassone. il caso di ricordarlo, quando si parla dei paradisi finanziari: la loro esistenza dipende non solo dalla convenienza economica che offrono agli operatori, ma anche dalla convenienza che hanno le classi politiche dei grandi Paesi a tollerarli. Ovvero: se il Liechtenstein esiste, è perché conviene a politici tedeschi (e non solo). Il fenomeno dei paradisi fiscali e finanziari ha ormai una storia almeno trentennale, se si vuol guardare solo alla esperienza dei moderni mercati dei capitali. I paradisi – o centri e territori offshore – sono uno dei risultati più evidenti del cosiddetto arbitraggio regolamentare. Da un lato, c’è lo sviluppo delle infrastrutture tecnologiche e finanziarie, che consente a capitali di viaggiare; dall’altro, ci sono Paesi – o meglio ancora i loro governanti – che comprendono come un disegno opportuno delle regole – finanziarie, fiscali, societarie – consente di attirare capitali di non residenti. Che il primo pilastro del fenomeno offshore sia nella convenienza dei politici che tali centri governano emerge con evidenza da una ricerca empirica svolta lo scorso anno dal Centro Paolo Baffi dell’Università Bocconi. Sono state considerate le caratteristiche economiche e istituzionali di 222 Paesi – praticamente tutto il mondo – tra cui una quarantina di Stati individuati come centri offshore. Dallo studio emerge come un centro offshore debba avere almeno due caratteristiche che lo rendono appetibile agli occhi degli investitori internazionali: un alto grado di stabilità politica ed un livello nullo di rischi legati al crimine organizzato e al terrorismo internazionale. Inoltre è gradito un sistema delle leggi e dei regolamenti conformi ai principi della common law, che aumenta le garanzie di tutela dei diritti di proprietà. Ma c’è un’altra peculiarità che salta agli occhi: la scarsa – o nulla – presenza nelle organizzazioni internazionali, di qualunque tipo. Ai politici dei centri offshore della rappresentatività nelle organizzazioni internazionali interessa poco o nulla. Il loro interesse precipuo è quello che pensano i loro elettori, siano essi i cittadini comuni o le lobby che li sostengono. Per cui leggi e regolamenti che attirano capitali esteri possono essere un buon veicolo di stabile sostegno politico. L’appartenenza alle organizzazioni internazionali, invece, è fonte di impicci e fastidi. Se poi l’organizzazione internazionale – si pensi all’Ocse, al Financial stability forum, al Gruppo internazionale d’azione contro il riciclaggio finanziario (Fatf) – assume iniziative che vanno contro i centri offshore, esserne fuori significa non riconoscere alcuna efficacia economica ed alcuna legittimità politica a tali iniziative. Ma vi è un secondo pilastro che regge lo sviluppo del fenomeno offshore: la convenienza delle classi politiche dei Paesi "onshore" ad ammettere esplicitamente ovvero a tollerare implicitamente l’esistenza di tali enclave finanziarie, fiscali e societarie. Infatti i politici dei grandi Paesi hanno fin dall’origine tenuto un atteggiamento ambivalente nei confronti dei paradisi, bilanciando il costo economico della fuoriuscita dei capitali – ad esempio in termini di gettito – con il vantaggio politico di consentire a settori più o meno ampi della propria classe produttiva e finanziaria di trarre benefici dall’arbitraggio regolamentare. Non è un caso che, fin dalla fine della seconda guerra mondiale, la geografia dei centri offshore presentava una mappa ben precisa. Solo per fare alcuni esempi, centri offshore sono progressivamente gemmati nei bacini del Pacifico, dei Caraibi – a servizio dei capitali americani, australiani ed asiatici – come nel cuore dell’Europa e nelle isole del Canale, per la gioia degli operatori del vecchio continente. La tolleranza dei politici occidentali ha preso forme esplicite: si pensi all’opposizione dell’amministrazione Bush alle liste nere dell’Ocse sui paradisi fiscali, almeno fino al settembre 2001; ed anche il successivo cambiamento di rotta si spiega evidentemente con una analisi costi e benefici politici. Ma il "chiudere un occhio" del politico è sovente implicito: stigmatizzo formalmente le forme di arbitraggio regolamentare – definendolo magari sleale – ma non attuo alcuna concreta iniziativa. Ovvero non si effettua una seria analisi dei costi e dei benefici, visto che non tutte le forme di competizione regolamentare sono uguali: anche dal punto di vista dell’analisi economica, non cooperare alla lotta internazionale al riciclaggio è ben diverso da definire sistemi fiscali a basso impatto. Per cui, quando ad esempio negli anni 80 il Fondo monetario internazionale propose forme di quarantena finanziaria per i Paesi a regolamentazione opaca, tutti applaudirono, ma nessuno fece nulla. Fino al momento in cui non esplode un caso mediatico. Allora, parte una robusta azione di annunci e dichiarazioni – conforme al borbonico adagio dell’"ammuina" – per poi ripartire a ballare il tango. di Donato Masciandaro