La Stampa 4 marzo 2008, SORGI MARCELLO, 4 marzo 2008
Caso Moro. La Stampa 4 marzo 2008. Scriveva, scriveva tutto il giorno, a volte anche la notte, Aldo Moro
Caso Moro. La Stampa 4 marzo 2008. Scriveva, scriveva tutto il giorno, a volte anche la notte, Aldo Moro. Chiuso nel soffocante involucro della «prigione del popolo» - un’intercapedine di un metro per tre, un letto, una sedia, un cesso chimico, lo spazio per fare al massimo due, tre passi - vergava uno dopo l’altro i suoi fogli ordinati, e numerati, disteso. Con grafia incerta, che una perizia grafologica considero’ come una prova della sua sottomissione ai brigatisti. Moro se ne dispiacque: «Come possono pensare che scriva con le comodita’ di un ufficio ministeriale!». Nel trentennale del sequestro Moro (16 marzo 1978, il rapimento e la strage; 9 maggio l’assassinio), arriva in libreria una nuova serie di saggi su quel che rimane uno dei casi di terrorismo piu’ emblematici del Novecento. Dopo il bel libro di Giovanni Bianconi - Eseguendo la sentenza (Einaudi), una minuziosa ricostruzione, basata su documenti e testimonianze inedite, da cui emerge l’assoluta impreparazione dello Stato, e in particolare dello Stato democristiano, di fronte alle Br -, Einaudi da’ alle stampe Lettere dalla prigionia, la prima edizione critica dei messaggi del presidente Dc dal suo carcere, a cura di Miguel Gotor, un giovane e puntuale storico dell’Universita’ di Torino. Ma se Bianconi confida, a trent’anni dai fatti, che molto o quasi tutto dell’accaduto sia chiaro, Gotor, al contrario, e’ convinto che gran parte sia ancora da svelare. Novantasette lettere scritte in varie versioni, piu’ il memoriale, in tutto 500 fogli vergati in 55 giorni, e in parte ribattuti a macchina con qualche errore di ortografia dalle «mani contadine» del Br Prospero Gallinari. Questo e’ quel che e’ stato trovato, dodici anni dopo il sequestro, nell’ottobre ’90, nel famoso covo di via Montenevoso a Milano, in un’intercapedine di un muro chiusa alla meno peggio con un po’ di gesso e sfuggita chissa’ come alle prime perquisizioni del 1978. Gli uomini di Dalla Chiesa rinvennero anzi lo stesso materiale, ma in copia dattiloscritta e senza la firma del prigioniero: lo dichiararono, percio’, «non autentico», salvo poi smentirsi quando saltarono fuori le copie degli originali. E’ da questi materiali che il lavoro dello storico prende le mosse. Gotor denuncia innanzitutto due «inciampi» metodologici - cosi’ li definisce - da rimuovere prima di addentrarsi nella ricerca. Il primo e’ il paragone tra le lettere di Moro e quelle dei condannati a morte della Resistenza, la base, o una delle basi logiche, su cui sara’ poi avviata la demolizione politica del prigioniero. E’ un paragone senza senso - spiega - il partigiano essendo uno che ha scelto la lotta armata e ha messo nel conto di poter perdere la vita, e Moro, diversamente, «uno che non si sentiva in guerra con nessuno / e scriveva non per rendere accettabile a se’ stesso e ai propri cari una morte probabile, ma per provare ad aver salva la vita». Il secondo «inciampo» e’ quello, opposto, di Leonardo Sciascia, che vuol dimostrare come Moro fosse pienamente cosciente e in grado perfino di subordinare psicologicamente i suoi carcerieri. In realta’ anche Gotor e’ convinto della lucidita’ del condannato, la sensazione e’ che la polemica con lo scrittore siciliano sia voluta per sminuirne la difesa di Moro, basata su un’intuizione letteraria. Lo storico tende insomma a presentare la sua come l’unica tesi scientificamente sorretta da dati. Se meno di un terzo delle lettere viene reso noto durante i giorni del sequestro, e se poco piu’ di un terzo viene recapitato ai capi democristiani che ne parlano, quando ne parlano, con reticenza o perche’ richiesti da un giudice, una ragione ci dev’essere. E’ la «doppia censura», dello Stato e delle Br, che cala come una ghigliottina sulla raffinatissima tela che il condannato sta tessendo, per scongiurare l’esecuzione. Una tela che parte dall’accusa, rivolta da Moro ai democristiani, di trovarsi nella «prigione del popolo» per causa loro, passa per la minaccia di rivelare segreti di Stato che potrebbero compromettere il ruolo internazionale dell’Italia, arriva alla definizione della proposta, incardinata a precedenti storici italiani e stranieri, di «scambio di prigionieri», coinvolge il Vaticano e papa Paolo VI in una trattativa segreta, e si conclude con l’illusione, di Moro, di essere alle soglie della liberazione, e con l’offerta scritta, da parte sua, di una completa delegittimazione della Dc e della maggioranza di unita’ nazionale sostenuta dai comunisti, con l’abbandono del suo partito e il passaggio di fatto all’opposizione. Gotor nell’analisi delle due censure e’ spietato. Nel denunciare l’approssimazione e l’artigianalita’ della costruzione da parte dello Stato di una versione che tende a presentare Moro come inattendibile, attraverso una sapiente opera di distribuzione di frammenti di notizie e interpretazione dei suoi scritti - opera, va da se’, di cui i principali giornali e telegiornali sarebbero stati complici acritici -, e nel presentare il lavoro delle Br, sia all’esterno sia nei confronti del prigioniero, come fondato su una pretesa scientificita’, si vede bene da che parte pende il giudizio storico. Dunque lo Stato non pensava affatto, come faceva credere, che Moro fosse ridotto agli ordini delle Br. Piuttosto, conoscendolo come il migliore di loro, i capi democristiani temevano che avesse capito che non erano in grado, o non volevano adoperarsi piu’ di tanto, per la sua salvezza. E di conseguenza, leggendo quel che scriveva, che volesse vendicarsi di loro, vivo o morto: «Il mio sangue ricadra’ su di voi. / Io ci saro’ ancora come punto irriducibile di contestazione e di alternativa». Di qui le due trattative che, all’ombra di una formale linea di fermezza verso le Br, furono avviate con i rapitori. Quella del Vaticano, aperta con i capi brigatisti in carcere grazie al lavoro sotterraneo del capo dei cappellani militari don Cesare Curioni e di don Antonello Mennini: uomini di stretta fiducia del Papa e vicini a Moro, giungeranno a offrire un riscatto di dieci miliardi di lire e la liberazione di un detenuto straniero in cambio della liberta’ dell’ostaggio, che Mennini in persona sarebbe poi dovuto andare a prendere nella «prigione del popolo» per portarlo in Vaticano, dove la liberazione sarebbe stata ufficialmente annunciata. E la trattativa del Psi di Craxi, svolta da Claudio Signorile in collaborazione con Lanfranco Pace, un dirigente di Potere Operaio che riusci’ a mettersi in contatto con Valerio Morucci e Adriana Faranda, i due «postini» del commando che teneva prigioniero Moro, e che si opposero all’esecuzione nella tragica ultima riunione della colonna Br che ne decise la fine. Malgrado l’intervento finale di Fanfani, pronto ad aprire ufficialmente la trattativa, anche questo tentativo falli’. Fin qui, dettaglio piu’ dettaglio meno, e sia pure con una sistemazione storica che rivela la professionalita’ dell’autore, non ci sono grandi novita’. Ma Gotor fa un altro passo in avanti, e si inoltra nel giallo del doppio ritrovamento, o forse dell’accurato occultamento per dodici anni, dei documenti che sono al centro del suo libro. Se sono stati considerati inattendibili dopo il primo ritrovamento, e dichiarati autentici dopo il secondo, l’unica spiegazione, conclude l’autore, e’ che facevano parte della trattativa. Una trattativa che non riusci’ a salvare il prigioniero, perche’ forse non aveva neppure quest’obiettivo, ma riusci’ a recuperare i documenti e le rivelazioni di Moro. Fatti trovare, non a caso, nel ’90, dopo la fine della Guerra fredda, e quando molte delle affermazioni del leader ucciso non avevano piu’ valore. Ma restituiti in copia, mentre gli originali, da tempo, erano forse stati depositati in qualche cassaforte di servizi stranieri. Non documentata ne’ documentabile, questa, come tante altre fiorite in piu’ di trent’anni di ricerche sul caso Moro, e’ una conclusione affascinante. Anche se Gotor, sul finire del suo lavoro, cede un po’ alla fascinazione letteraria e alla dietrologia giornalistica, che pure aveva rinnegato all’inizio. SORGI MARCELLO