Il Manifesto 5 marzo 2008, MATTEO GUARNACCIA, 5 marzo 2008
HAIR peace & love. Il Manifesto 5 marzo 2008. Per quanto frivolo possa apparire oggi, nell’agenda delle rivendicazioni dei giovani di quarant’anni fa, il diritto di poter decidere sulla lunghezza dei propri capelli occupava un posto fondamentale
HAIR peace & love. Il Manifesto 5 marzo 2008. Per quanto frivolo possa apparire oggi, nell’agenda delle rivendicazioni dei giovani di quarant’anni fa, il diritto di poter decidere sulla lunghezza dei propri capelli occupava un posto fondamentale. Dopo lo shock Beatles, ai timidi segnali di cambio d’acconciatura dei propri figlioli, il mondo adulto aveva reagito con un attacco di violenta tricofobia. A contrastare ciò che appariva come una sfida intollerabile non erano stati chiamati consulenti di estetica, ma poliziotti e legislatori. Il maschio che superava l’invisibile linea rossa del pelo regolamentato, diventava ufficialmente un degenerato e, in quanto tale, poteva essere espulso dalle scuole, cacciato dai locali pubblici, respinto alle frontiere, additato al disprezzo dai mezzi di informazione, molestato dalla polizia. Oltre ad essere costantemente insultato e deriso per strada, non era raro che venisse malmenato e rapato da solerti difensori della pubblica decenza. Questo capitava un po’ in tutto il mondo, dalla Francia (il primo paese a varare leggi che proibivano la libera circolazione degli zazzeruti) a Singapore (paese con norme draconiane); dagli Stati uniti (dove persino Disneyland era off-limit e nelle città spuntavano cartelloni con la scritta «Mantieni bella l’America, Vatti a tagliare i capelli!») all’Italia (dove nel 1966 i neofascisti di Avanguardia Nazionale si allenavano con applauditi pogrom anticapelloni). Una band famosa come Crosby, Stills, Nash & Young diede voce alle paranoie generazionali lanciando una canzone come Almost Cut My Hair (Stavo per tagliarmi i capelli). Il nomadismo giovanile inaugurò un inedito contrabbando: quello dei propri capelli. I «detentori» di una non modica quantità di chioma, si industriavano a farla passare oltre le dogane più fiscali (vedi Spagna e Marocco) nascondendola sotto strati di brillantina, retine, parrucche con capelli corti, cappellini, bendaggi e forcine. A poco servivano i rari tentativi di sdrammatizzare il fenomeno, tipo «In fondo anche Gesù aveva i capelli lunghi». Il musicista Al Kooper ha espresso perfettamente il mood dell’epoca: «Per un bianco il miglior modo per provare sulla propria pelle cosa significasse essere ’negro’, era quello di farsi crescere i capelli e viaggiare per il paese. Venivi trattato come un ’negro’, con la differenza che tu potevi sempre tagliarti i capelli». Ovviamente ogni vero ribelle godeva nel lasciarsi crescere i capelli, a inalberare criniere leonine, boccoloni da Assalonne, ciuffi come le onde di Hokusai. Lo facevano sentire bello, naturale, anticonformista, esprimevano una sessualità indefinita, ostentavano la sua secessione dal mondo tecnologico e militarista - oltre al fatto che facevano imbufalire i grandi e li rendevano irresistibili agli occhi delle ragazze. La lunghezza era un lasciapassare, una garanzia, richiedeva anni di diserzione dal barbiere e chi ne faceva mostra, non poteva essere un infiltrato, era «contro». I capelli, sempre per citare Crosby, Stills, Nash & Young, erano la Bandiera Freak da far sventolare al vento. in questa situazione di turbolenza follicolare che nell’aprile 1968 debuttò a Broadway (dopo un breve rodaggio nel circuito off l’anno precedente) quello che sarebbe divenuto uno dei più fortunati spettacoli teatrali americani del dopoguerra. Scritto da due attori del giro alternativo newyorkese, James Rado/ Gerome Ragni, aveva un titolo che non lasciava dubbi: Capelli. Hair - The Tribal Love Rock Musical irrideva le più venerabili istituzioni americane, lanciando in modo impudente proclami di liberazione pansessuale e interrazziale, turpiloquio, rifiuto del consumismo e delle religioni organizzate, inni alle droghe e all’astrologia, antimilitarismo e nudismo. Proponeva un nuovo progetto di società basato sulla tribù in opposizione alla famiglia mononucleare chiusa. La spiritualità dei nativi americani lungocriniti contro la rozzezza dei capelli tagliati alla John Wayne (una delle battute più memorabili recitava: «Gli uomini bianchi spediscono gli uomini neri a combattere gli uomini gialli per proteggere la nazione che hanno rubato agli uomini rossi»). Era la scenografica concretizzazione di ciò che andava recitando il poeta Gary Snyder : «Dobbiamo tornare alla tribù perché questo implica un diverso ordine sociale, basato sulla comunità e sulla solidarietà, sulle relazioni tra persone e sulla responsabilità individuale piuttosto che su un astratto governo centrale. Qualcosa di simile agli antichi zingari europei, un gruppo senza nazione e territorio, che mantiene i propri valori. Una tribù composta da intellettuali alienati, persone creative e devianti sociali che si riconoscono tra di loro da piccoli segni di poco conto come l’avere i capelli lunghi». Era il segno tangibile che l’underground stava tracimando nella cultura mainstream, la rivoluzione culturale hippie segnava un punto a suo favore. Le provocazioni stile Fugs, Open Theatre e Living Theatre, gli happening, i love-in, le marce contro la guerra si spostavano dalle strade alle assi del palcoscenico, conquistando il pubblico più tradizionale abituato alle produzioni classiche Rodgers & Hammerstein (Il Re ed io, Oklahoma). Il musical era improvvisato e drammaturgicamente debole, ma funzionava alla grande grazie alla fresca esuberanza degli interpreti e alla formidabile colonna sonora, una sequenza di canzoncine molto orecchiabili, più funky che rock, musicate da Galt MacDermot su testi di Rado/Ragni, destinate a scalare le hit parade (e in seguito a diventare jingle pubblicitari). L’eroe dello spettacolo era un renitente alla leva, sul palco si bruciavano le cartoline precetto, si fornicava sotto la bandiera americana, la troupe era composta da veri hippies felicemente promiscui e pelosi come yeti che si strofinavano contro gli allibiti spettatori. Nel curriculum di una delle attrici si poteva leggere: «mi piace scaccolarmi il naso, scopare, fumare roba e fare viaggi astrali». Non c’è da stupirsi se all’inizio i commenti positivi arrivarono anche dai giornali della controcultura: «è più di un musical, è il simbolo di un nuovo ordine mondiale o meglio di un nuovo disordine mondiale. Per gli hippies non è esattamente quello che per i comunisti è stato Il Capitale di Marx, ma anche nella sua versione più corrotta, Hair generalmente riflette uno dei principi base dell’underground: la politica e lo stile di vita devono coincidere» (OZ, 1969). Rimase colpita anche la regista francese Agnès Varda, che mise in piedi in fretta il film Lions Love, dedicato alle chiome leonine (e ai corpi nudi) di Ragno/Radi e della musa warholiana Viva. Hair, descritta come «una gentile dichiarazione d’Indipendenza del mondo giovanile», da Broadway si irradiò per i teatri di tutto il mondo, macinando consensi e commozioni da Buenos Aires a Istanbul, da Tokyo a Belgrado (dove il Maresciallo Tito restò piacevolmente sorpreso). Fu al centro di dure battaglie legali negli Stati uniti, con sentenze che segnarono dei precedenti importanti in favore della libertà di espressione. In Messico la troupe venne espulsa dopo una sola data perché ritenuta troppo licenziosa. Inevitabilmente Hair divenne un prodotto perfetto e lucroso per un mercato di massa affamato di esotismo e di epidermidi scoperte. Per non spaventare troppo le platee, la produzione (non più composta da sciamannati ma da gente dello showbusiness) tolse i riferimenti troppo espliciti alla politica e ad alcune pratiche sessuali. La radicalità dell’idea di partenza si perse per strada, la rappresentazione venne annacquata in un vago messaggio di Pace e Amore. Diventò uno spettacolo in costume, una specie di Wild West Show di Buffalo Bill, dove al posto degli indiani si trovavano gli hippies. A Londra nel 1970 due ragazze del cast vennero licenziate, una perché sospettata di essersi fatta una canna, l’altra perché implicata in un picchettaggio contro uno show razzista. Le troupe non erano più formate da freaks ma da professionisti (molti con le parrucche). Certo gli organi della maggioranza silenziosa continuavano a strillare, inveendo contro «uno spettacolo che offende tutto, dal pudore alla Patria, dall’igiene alla verità» (come scriveva Il Borghese in occasione dell’edizione romana nel 1970), ma gli strilli più forti venivano dalla controcultura: Hair è un simulacro vuoto, ha ridotto la psichedelia in una pappina inoffensiva» (Jonathon Green, All Dressed Up); «sfruttato dall’industria culturale e musicale, è diventato un simbolo folkloristico, svuotato completamente del suo originario significato politico» (Re Nudo, 1970). Il cambiamento del mood planetario segnò le sorti del musical. Lo spettacolo che aveva spalancato le porte ad una nuova promettente formula, l’opera rock ( Jesus Christ Superstar, Orfeo 9 , Godspell, Grease e Rocky Horror Show) nel 1972 dopo 1742 repliche chiuse a Broadway. L’avvento dell’Età dell’Aquario, foriera di pace e comprensione, era stata annunciata con troppo anticipo, senza rispettare il calendario cosmico - secondo lo zodiaco siderale mancherebbero ancora 436 anni. Il mondo continuava a sguazzare nella torbida Età dei Pesci. Nel 1979, fuori tempo massimo, il regista Milos Foreman realizzò una criticata versione cinematografica, una celebrazione dei figli dei fiori fatta in pieno yuppismo, quando ormai tutte le idee di Armonia e Comprensione - per non parlare dei capelli lunghi- erano considerate patetiche e per nulla trendy. Dagli anni ’90 in poi, di pari passo con la nostalgia e la rivalutazione dell’hippismo, sono state inaugurate nuove edizioni di Hair che girano il mondo con crescente successo. Per fortuna tematiche come pace, amore e libertà hanno ritrovato il loro appeal - anche fuori dai teatri. MATTEO GUARNACCIA