Il Manifesto 5 marzo 2008, MAURIZIO MATTEUZZI, 5 marzo 2008
La Zapatero-economy: Madrid non corre più. Il Manifesto 5 marzo 2008. José Luis Rodríguez Zapatero questa volta non è stato fortunato
La Zapatero-economy: Madrid non corre più. Il Manifesto 5 marzo 2008. José Luis Rodríguez Zapatero questa volta non è stato fortunato. O quanto meno previdente. Se avesse anticipato le elezioni di qualche mese, alla fine dell’anno scorso, le avrebbe vinte in carrozza. Qui in Spagna si sarebbe forse ripetuto lo scenario del ’92 negli Stati uniti, quando il candidato Bill Clinton gettò in faccia a George Bush padre una frase che sarebbe divenuta famosa: « l’economia, stupido». E vinse perché il recente trionfo militare del presidente uscente nella prima guerra del Golfo non resse il confronto con il cattivo andamento della situazione economica americana. Mariano Rajoy e il Partido popular avrebbero potuto giocarsi le loro chances (scarse) solo su temi artificiali come la riforma degli statuti d’autonomia delle Regioni che «hanno rotto» la Spagna, l’immigrazione «fuori controllo» dei 4-4.5 milioni di stranieri - che in realtà sono stati due incontestabili successi della politica zapaterista - e il «cedimento al terrorismo» - il tentativo malauguratamente fallito ma del tutto ragionevole di arrivare a una soluzione negoziata con l’Eta. Così invece al loro armamentario elettorale hanno potuto aggiungere anche la paura per la «crisi economica» alle porte. E presentare un quadro catastrofico dei quattro anni passati e catastrofista, in caso di vittoria di Zapatero domenica prossima, per i quattro anni a venire. Dal 3,8% dello scorso anno, la crescita rallenta ed è prevista al 2,8% per il 2008. In realtà la Spagna da 14 anni filati ostenta una crescita economica costante e sostenuta, più del doppio della media europea. Nel 2004 ha definitivamente annullato il gap che la separava dalla media del prodotto interno pro-capite dell’Ue - recuperando dal 71% nell’86 quando entrò nell’Europa a 15 - e nel 2007 ha superato l’Italia, come non si stanca di sottolineare Zapatero. Il suo pil l’anno scorso ha superato il capo del miliardo di euro, dai 680 milioni del 2001, facendone l’ottava potenza economica al mondo. Ha ridotto la disoccupazione dal 24% del ’94 all’8% del 2006 e da sola ha creato il 40% dei posti di lavoro della zona euro. La Borsa spagnola nel 2006 è stata «la più redditizia d’Europa« e nel 2007 è stata frenata dallo scoppio della «bolla del mattone» ma anche così le compagnie dell’Ibex hanno fatto profitti del 16% superiori al 2006. Le 5 grandi banche spagnole, con alla testa Santander e Bbva, hanno battuto tutti i record con 15 miliardi di euro nei primi 9 mesi del 2007. Le compagnie sprizzavano «soddisfazione» e le imprese spagnole «davano l’assalto all’Europa». La politica economica di Zapatero era lodata dall’Fmi, dall’Ocse, dalla Ue. Nel 2007 il superavit è stato dell’1.8% del pil, un record. Zapatero, all’inizio del 2007 - ma anche The Economist - definiva l’economia spagnola «inarrestabile» e alla fine del 2006 sull’onda dell’entusiasmo, lanciava la sfida all’Italia «entro il 2009» e poi - corretto dal ministro dell’economia Solbes - alla Germania entro il 2010. Zapatero dice con ragione che la Spagna «ha ormai tutti i requisiti per entrare di diritto nel G-8». Nel librone «2004-2008 Balance de Legislatura» scrive che «in questa legislatura si è dimostrato che si può crescere economicamente, aumentare le spese in politica sociale, creare lavoro, ridurre il debito pubblico, avere un superavit e, inoltre, abbassare le imposte. la prima volta che in Spagna si consegue tutto ciò allo stesso tempo». E una crescita tecnologicamente «povera», basata su edilizia, servizi e consumi ma ha ragione di essere soddisfatto, anche se non è vero che ha abbassato le imposte (+ 2 punti dal 2004), pur restando la pressione fiscale spagnola (36.4%) inferiore alla media europea (40.8%) e a quella italiana (43.7%). In campagna elettorale si sprecano gli impegni e le promesse. La diminuzione della pressione fiscale è uno dei punti-chiave. Sia il Psoe sia il Pp si sono impegnati a chi la ridurrà di più senza badare a demagogia: 400 euro l’anno restituiti sull’Irpef per tutti, riduzione dell’imposta di successione, eliminazione dell’imposta sul patrimonio, il Psoe. Eliminazione dell’Irpef per i redditi inferiori ai 16 mila euro l’anno e riduzione media del 16% per tutti, riduzione dell’imposte delle società, eliminazione dell’ imposta sul patrimionio, il Pp. Solo Izquierda unida, ricordandosi che la diminuzione o cancellazione delle imposte è sempre stata «qualcosa di destra», propone di aumentare «la progressività» dell’Irpef e le imposte societarie, mantenere quelle di successione e sul patrimonio, ridurre l’Iva sui beni di prima necessità. Ma Iu conta poco, e con la storia del «voto utile» è probabile che domenica veda ancora diminuire i suoi 5 seggi alle Cortes. «I principi di Zapatero sono quelli del marxismo di Groucho Marx», ironizza Rajoy. In realtà il vecchio Marx non c’entra per nulla con la politica economica della Spagna, che è stata quanto mai «ortodossa» ma facendosi carico delle urgenze sociali. Lo stesso Pedro Solbes, il ministro social-liberale dell’economia, ha riconosciuto che «sul piano macro-economico è vero che non ci sono grandi differenze» fra lui e il suo predecessore aznarista Rodrigo Rato. Qualche giorno fa El País, esaminando i programmi economici dei due contendenti, ha scoperto che l’intento «centrista» di entrambi praticamente quasi cancella le differenze e fa scomparire «l’alternativa destra-sinistra». E anche l’insospettabile Goldman Sachs parla di «ricette simili». La crisi internazionale che si spande dall’America, con le sue guerre infinite e lo scoppio del subprime, e la crisi del mattone e della speculazione immobiliaria dell’anno scorso in Spagna ha provocato una «desaceleración» dell’economia spagnola, non la fine del suo «ciclo virtuoso», come si sforza di far credere il catastrofismo del Pp. Zapatero ha aumentato i salari e le pensioni minime (che restano tuttavia fra le più basse d’Europa), ha diminuito la precarietà del lavoro (che resta, con il suo 30%, fra le più alte d’Europa), ha adottato le riforme fiscali, del mercato del lavoro (aumentando la stabilità e la flexsecurity) e delle pensioni, tutto grazie al «dialogo» con i padroni della Ceoe e i sindacati Ugt e Comisione obreras che gli hanno garantito una generosa pace sociale e si sono accontentati: il 1° maggio 2005 marca il confine «fra il periodo di grazie a quello della giustizia», aveva detto nel 2005 José María Fidalgo, segretario generale delle CC.OO. Ma i sindacati restano sempre, fin dai tempi dei Patti della Moncloa alla fine degli anni ’70, «la gamba zoppa della transizione». Come dice José Bellod Redondo, professore di Scienze economiche, «con Zapatero il capitale ha fatto festa approfittando della crescita del pil e della moderazione salariale». Ancor più secco Anton Costas, professore di Politica economica all’università di Barcellona: «Il salario reale non ha cessato di calare negli ultimi anni», la Spagna è il paese che ha generato il maggior numero di nuovi ricchi nel 2004 e si presenta come il paradiso delle opportunità e della mobilità sociale ma rischia di diventare «un modello all’americana», con «sempre più ricchi e sempre più diseguaglianza». Però, visti i tempi che corrono, ce ne fossero dei Zapatero. MAURIZIO MATTEUZZI