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 2008  marzo 11 Martedì calendario

Quegli stati che vivono da parassiti. La Repubblica 11 marzo 2008. Nelle loro casseforti nascondono dai quattromila agli ottomila miliardi di euro, secondo le stime di istituzioni internazionali come l´Ocse

Quegli stati che vivono da parassiti. La Repubblica 11 marzo 2008. Nelle loro casseforti nascondono dai quattromila agli ottomila miliardi di euro, secondo le stime di istituzioni internazionali come l´Ocse. Se quelle ricchezze pagassero le tasse, il gettito basterebbe da solo a finanziare il Millennium Development Goal, il piano delle Nazioni Unite per sradicare la povertà del Terzo mondo. A custodire quel tesoro sono i paradisi bancari e fiscali. Si trovano ai quattro angoli del pianeta, dai Caraibi a Singapore, ma molti sono a pochi chilometri dalle nostre frontiere: Liechtenstein e Monaco, Andorra e le isole della Manica (Jersey, Man), anacronistici staterelli la cui indipendenza è puramente simbolica in ogni altro campo, ma che appaiono impenetrabili alle magistrature e alle autorità fiscali dei paesi vicini. Una breccia storica si è aperta poche settimane fa, con il clamoroso blitz-krieg organizzato dai servizi segreti tedeschi a Vaduz, la capitale del Liechtenstein. In un colpo solo il governo di Berlino ha messo le mani su 1.400 conti intestati a ricchi evasori tedeschi. Arresti e interrogatori a tappeto possono riportare nelle casse dell´erario tedesco centinaia di milioni di euro di imposte. L´irruzione tedesca nel segreto bancario di Vaduz ha regalato informazioni utili anche ad altri paesi: Italia, Francia, Svezia hanno ricevuto a loro volta elenchi su cui sono in corso gli accertamenti. Nell´eterna gara a "guardie e ladri" che oppone le autorità fiscali e i contribuenti, i paradisi fiscali sono santuari la cui immunità viene raramente violata. Perfino l´autorità fiscale più potente del pianeta, lo US Internal Revenue Service, nel 2006 dovette confessare la sua frustrazione per la fuga di capitali nelle piazze offshore: «Ci scontriamo con giurisdizioni sovrane su cui non abbiamo possibilità d´intervento». Anche se i contribuenti italiani figurano tra i più propensi all´evasione - con il 15 per cento del Pil nazionale "in nero" - nessun paese è del tutto immune dal virus che corrode l´etica della responsabilità fiscale. L´Operazione Wickenby in Australia portò alla luce una vasta rete di celebrità i cui redditi sparivano nei porti franchi. La Gran Bretagna ha recuperato mezzo miliardo di sterline in una sola piazza offshore che ospitava migliaia di conti bancari intestati a contribuenti di Sua Maestà. Ma finora si trattava di vittorie di Pirro: le somme recuperate erano modeste rispetto alle ricchezze nascoste. Il rischio di essere scoperti era così limitato da non scoraggiare le fughe di capitali. La guerra-lampo tra Berlino e il piccolo principato sul confine svizzero potrebbe aprire una pagina nuova: l´inizio della fine per gli Stati-parassita che prosperano sui reati fiscali. La Germania ha sfoderato armi pesanti. La sua intelligence ha comprato una "gola profonda", un funzionario della banca Lgt di Vaduz che in cambio di 4,2 milioni di euro ha ceduto la lista segreta dei conti bancari. Berlino minaccia una escalation di rappresaglie contro il Liechtenstein: nell´ipotesi estrema le autorità tedesche potrebbero reintrodurre una restrizione mirata sui movimenti di capitali, bloccando ogni versamento dalle banche tedesche verso Vaduz. Sarebbe la rovina per il principato che si vedrebbe costretto a campare vendendo il latte delle sue mucche. Visti i risultati ottenuti da Angela Merkel altri governi ora possono aver voglia di seguire il precedente tedesco applicando ai paradisi fiscali i metodi del controspionaggio o della guerra alla mafia: infiltrazione di "talpe", incentivi al pentitismo. Ma attenzione a gridare vittoria troppo presto. Nel 1962 uno statista a cui non mancava la grinta, il generale Charles De Gaulle, organizzò un autentico assedio militare di Monaco stringendolo in un cordone di agenti francesi delle dogane. Sotto la minaccia di chiudere le frontiere e di strangolare Montecarlo, il presidente ottenne dal principato l´impegno a tassare tutti i residenti francesi. Eppure 46 anni dopo le autorità fiscali di Parigi sono ben lungi dall´aver trionfato nella battaglia contro l´evasione offshore. La vitalità dei paradisi fiscali ha molte facce. Da una parte la lobby degli evasori offshore è potente e ramificata, ha radici nel mondo della finanza e delle grandi multinazionali, include la criminalità organizzata, il narcotraffico e il terrorismo: sono forze che possono mobilitare risorse considerevoli per "convincere" politici amici, creare indulgenze e collusioni in favore dei paradisi fiscali. Come non bastasse, in loro soccorso è arrivata anche l´ideologia neoliberista, che li legittima e ne vanta gli effetti positivi. La controffensiva in difesa del Liechtenstein è già in atto. Pierre Mirabaud, presidente della Confederazione bancaria svizzera, ha accusato i servizi segreti tedeschi di «usare i metodi della Gestapo». Sul Wall Street Journal il guru neoliberista Daniel Mitchell del Cato Institute di Washington (think tank neoconservatore) è sceso in campo per illustrare il ruolo virtuoso dei paradisi fiscali. La tesi neoliberista è questa: anche nella tassazione è positivo che esista una concorrenza. In questo caso si tratta di una concorrenza fra Stati. I paesi meno ingordi di gettito fiscale attirano contribuenti in fuga dalle nazioni ad alta pressione tributaria. In tal modo i governi più efficienti e meno spendaccioni sono premiati da un afflusso di capitali. Prima o poi anche gli altri, cioè i governi abituati a tartassare il contribuente per mantenere burocrazie pletoriche e spese clientelari, saranno costretti a disciplinarsi se non vogliono che la loro base imponibile se la squagli. Ecco alcuni esempi citati dai neoconservatori, per corroborare la tesi che la concorrenza fiscale fa bene a tutti: prima degli anni Ottanta nei paesi industrializzati l´imposta sul reddito arrivava a un´aliquota marginale massima del 67 per cento, poi Reagan e la Thatcher iniziarono a "dimagrire" lo Stato assistenziale e a tagliare le tasse in casa propria; il risultato è che oggi l´aliquota massima è scesa al 40 per cento nella media dei paesi sviluppati. L´imposta sulle società fino agli anni Ottanta era in media del 50 per cento; ma grazie al buon esempio di paesi a bassa pressione fiscale come l´Irlanda oggi è scesa un po´ ovunque attestandosi attorno al 27. Sempre grazie alla spinta della concorrenza fiscale, quasi tutti i paesi hanno ridotto anche le imposte di successione e patrimoniali. In quest´ottica la crociata contro i paradisi fiscali è malefica, è il tentativo dei governi più ingordi di creare una «Opec dell´alta pressione fiscale», un super-cartello statalista delle tasse. Queste argomentazioni liberiste hanno molte falle. Un conto è la legittima competizione fra nazioni che perseguono politiche economiche alternative, ciascuna con l´obiettivo di incentivare gli investimenti, favorire lo sviluppo e creare occupazione. Ben altro è il comportamento di staterelli sanguisughe, che fondano la loro prosperità quasi esclusivamente sull´offerta di opacità e impunità agli evasori fiscali. Inoltre nella concorrenza fiscale emerge un´asimmetria evidente: a goderne sono solo i ricchi e le imprese. Se si eccettua una élite di cervelli scientifici o manageriali che possono offrire i propri talenti su un job market globale, la maggioranza dei lavoratori dipendenti non hanno l´opzione di trasferirsi laddove il loro reddito è meno tassato. Il fattore produttivo più mobile è il capitale, che fugge con facilità dove è trattato meglio. Per trattenere i capitali, l´effetto della competizione fiscale tra Stati è un abbassamento progressivo del prelievo sulle rendite finanziarie e sui profitti. La fuga dei grandi patrimoni e delle holding finanziarie verso i paradisi fiscali ha un prezzo: aumenta ulteriormente l´oppressione degli Stati sulle prede indifese, i redditi fissi da lavoro dipendente. FEDERICO RAMPINI