La Repubblica 11 marzo 2008, JOAQUÍN NAVARRO-VALLS, 11 marzo 2008
I DUBBI DELL´AMERICA E LA SFIDA
La Repubblica 11 marzo 2008.
Forse al punto in cui siamo è possibile fare un bilancio della campagna elettorale presidenziale degli Stati Uniti. Dico forse, perché la situazione attuale è considerata unanimemente poco chiara, come emerge dai commenti dei più prestigiosi analisti internazionali.
Il famoso supermartedì dello scorso mese, ad esempio, che avrebbe dovuto indicare i due candidati finali alla corsa del 4 novembre, si è risolto nella data d´inizio di un nuovo periodo d´incertezza. E se oggi il Partito repubblicano ha finalmente trovato in McCain un approdo definitivo, la situazione in casa democratica è ancora molto traballante.
Obama, dopo aver contestato la vittoria di Hillary in Texas, ha fatto trapelare altri dubbi relativamente ai risultati più recenti a lui sfavorevoli. Il Partito democratico ha reso noto addirittura con un comunicato del Presidente Howard Dean che potrebbe prospettare l´ipotesi di un nuovo voto in Florida e in Michigan per risolvere i dubbi dell´elettorato. Le ragioni vere sono legate, però, al fatto che il perdente e il vincente si contestano continuamente i risultati del "voto popolare", nonché il valore effettivo di consenso rappresentato dai delegati e dai superdelegati.
Semplificando, la situazione al filo di lana tra i due leader dell´opposizione democratica rende veramente difficile far valere reciprocamente una vittoria quando c´è e una sconfitta quando non c´è.
Questo mi ricorda il famoso risultato delle elezioni politiche italiane del 20 giugno del 1976 che videro un clamoroso pareggio tra la Dc e il Pci. Alcuni dissero che vi erano stati "due vincitori e nessun vinto": un commento analogo potrebbe essere fatto davanti ai risultati che Stato per Stato emergono da queste primarie. Si potrebbe definire quello americano un percorso travagliato, il cui sbocco finale appare ancora indecifrabile.
Anche i sondaggi rispecchiano questa diffusa instabilità, e sono piuttosto ballerini. Sono stati presentati la settimana scorsa, ad esempio, dei rilevamenti che davano una vittoria sicura di McCain per due punti, a prescindere da chi sarà il suo avversario. Mentre, poi, lunedì è stato presentato un sondaggio opposto. Quest´ultimo risultato, però, non tiene conto dell´appoggio che martedì McCain ha ricevuto da Bush, un fatto che inciderà certamente nella piccola forbice percentuale che separa il repubblicano dai contendenti democratici.
Una spiegazione interessante a questo stato di crisi permanente è stata proposta, indicando due possibili ragioni: l´imprevedibilità dei finanziamenti e la debolezza – si fa per dire – dei candidati ufficiali di partito.
Se Obama, in effetti, ha ricevuto moltissimi finanziamenti spontanei da parte di gente comune, spesso di poche centinaia di dollari, i quali tutti sommati hanno potuto fronteggiare i maggiori fondi di partito di cui dispone Hillary, anche McCain non può certo essere definito il candidato di bandiera dei Repubblicani. Addirittura, c´era chi vedeva in lui, in caso di vittoria dei Democratici nel 2000, un possibile vice di Al Gore alla presidenza.
L´unico elemento condivisibile dell´analisi, dunque, è che il consenso popolare, uscendo dai binari ufficiali di partito, diventa imprevedibile ed inefficace.
Ma quale è la ragione vera di questo stato fluido?
Nella storia delle elezioni americane, i candidati hanno cercato sempre di presentare, pubblicamente almeno, un contenuto ideale forte ed incisivo. Questo modello "aggressivo", al limite dell´utopismo, ha generato spesso incomprensioni in Europa. Si potrebbe affermare, partendo da Tocqueville, che questo aspetto "eticamente esigente" è il marchio di fabbrica della democrazia americana, essendo all´origine del modo fortemente idealistico d´intendere le cose oltreoceano.
Il prototipo di questo stile americano è stato, ad esempio, il presidente Woodrow Wilson. Nel suo Discorso sullo Stato dell´Unione del 2 dicembre 1913 egli presenta un´idea addirittura "profetica" di politica estera, incentrata sul valore di una vera e propria "missione" degli Stati Uniti nel mondo. L´idea della pace internazionale viene chiarita da Wilson nei termini di un "onore" e di un "obbligo etico" verso l´umanità. Il prodotto di questa politica fu un nuovo equilibrio di rapporti internazionali, da cui emerse prima la Società delle Nazioni, e, poi, il ruolo mondiale di pace assunto dalle Nazioni Unite. Un tale formidabile risultato politico sarebbe mai emerso senza quel forte idealismo di partenza?
Malgrado i sondaggi sempre più precisi e le tecniche di comunicazione sempre più sofisticate, appare chiarissimo che la crisi americana di oggi è fondamentalmente una crisi dei grandi ideali della politica, cioè una crisi di quei modelli umani di riferimento che guidano poi le realizzazioni concrete di governo.
Gli attuali personalismi e l´attuale incertezza della democrazia americana più che essere la causa della crisi appare molto più come l´effetto politico di una mancanza forte di idee trainanti. D´altra parte, i grandi progetti politici hanno potuto realizzare qualcosa, soltanto quando hanno saputo portare nello spazio pubblico nuove idee di umanità e nuove prospettive etiche di vita. A volte può trattarsi di un´impresa eroica, come liberare l´Europa dal totalitarismo, oppure della coraggiosa soluzione di una catastrofe economica, come fu il New deal di Roosvelt. Dietro queste imprese, però, c´è sempre qualcosa di più del mero interesse personale o nazionale. Se la politica non riesce a scavare nel proprio tempo per trovare prospettive ideali con cui far vivere meglio gli altri, in cui credere profondamente e per cui sacrificare il proprio egoismo, difficilmente viene considerata dalla gente una risorsa importante e difficilmente vi sarà un consenso chiaro per qualche leader.
L´America, che ha offerto al mondo alcuni grandi ideali, appare oggi scarna di idee, e, forse per questo, molto più vicina purtroppo alla Vecchia Europa.
JOAQUÍN NAVARRO-VALLS