La Repubblica 5 marzo 2008, PIETRO CITATI, 5 marzo 2008
Paul Valery. La Repubblica 5 marzo 2008. A vent´anni, Paul Valéry era un giovane «cupo, leggero, cedevole in apparenza, duro nel fondo, estremo nel disprezzo, assoluto nell´ammirazione, facile da impressionare, impossibile da convincere»
Paul Valery. La Repubblica 5 marzo 2008. A vent´anni, Paul Valéry era un giovane «cupo, leggero, cedevole in apparenza, duro nel fondo, estremo nel disprezzo, assoluto nell´ammirazione, facile da impressionare, impossibile da convincere». Due tendenze opposte dividevano la sua anima, come un campo di battaglia conteso tra due eserciti rivali. Da un lato, egli si abbandonava al piacere di esistere: era socievole e pronto a qualsiasi relazione: conversava con passione e con fuoco; amava "apparire", sollecitare, forzare, sedurre gli spiriti altrui, e lasciarsi sedurre. Se gli avessero chiesto a chi desiderava assomigliare, avrebbe ricordato Descartes, questo dilettante di genio, questo amatore e curioso di tutte le cose umane, che frequentò il gran mondo, fece la guerra per gioco, scrisse trattati sulla scherma e la musica; e fuggì ad Amsterdam, in quel labirinto di acque, di ponti, di navi, di barche, di reti, di pietre e commerci, dove si perse nella «confusione di una grande folla». Come Descartes tra i canali e la folla di Amsterdam, Valéry conversava e stringeva amicizie con la gioiosa superficie della propria persona. Un altro, più profondo istinto - un orgoglio luciferino - lo spingeva a raggiungere l´isola del suo spirito: lontano da tutti i viventi, non solo dai viventi che parlano di politica o di letteratura: chiuso in una solitudine irriducibile, unico, senza paragoni, senza vicini, senza amici. Nascosto nella sua stanza, vuota e desolata - un letto, un armadio, una lavagna coperta di calcoli e di equazioni, la riproduzione di uno scheletro, il Convito, Virgilio, tavole di prospettiva, note di architettura e di ornato, libri di marina ammucchiati confusamente sopra la scrivania - , egli tentava di vivere una vita ordinata secondo le leggi riflesse dello spirito. Voltava le spalle al mondo. Cancellava con ferocia i suoi sentimenti e le sue fantasie, come se potesse diventare un puro cervello che pensa, un puro occhio che vede, un perfetto strumento di misurazione. In quel luogo nudo, egli sperava di scavare, nel seno stesso del tempo, un «santuario impenetrabile al tempo»: dove avrebbe potuto essere ciò che conosceva, desiderare ciò che era, rendendo luce per luce, silenzio per silenzio. Il giovane «estremo nel disprezzo, assoluto nell´ammirazione» era l´intelligenza più profonda e sottile della sua epoca. Né Gide né Claudel, e nemmeno Proust, possedevano quel disperato coraggio, duro e inflessibile come forse nasce soltanto in Francia, che lo costrinse a gettarsi audacemente verso gli ultimi limiti della mente umana. Amava le linee rette, le lucide e infinite strade, che l´intelligenza percorre, felice e angosciata, con la velocità della luce; e, insieme, quanto è sinuoso o ramificato, - le ragnatele, gli intrichi, i crocicchi, che ci costringono alla cautela, all´indugio e al ricamo inesauribile. Malgrado la sua professione di ascetismo, gli occhi e i sensi di Valéry coglievano come pochi gli spettacoli che la realtà ci consegna ogni giorno. Lo spirito svelto brillava, scintillava di trovate, inscenando un perpetuo vaudeville intellettuale, moltiplicandosi e rispecchiandosi davanti al proprio specchio interiore, come davanti al pubblico. Imitava l´agilità, il fuoco e l´ironia di uno scrittore del Settecento: condivideva le sensazioni e le idee, i giochi e i capricci, le fughe, le curiosità, le finezze, che si accendevano dentro le pareti del suo cranio. Ma, ad un tratto, questo fuoco sembrava spegnersi. La ricca musica delle idee si disponeva - affascinata e incatenata - intorno ad un abisso senza fondo, ad una voragine paurosa e senza colore. Tutto ciò che vedeva l´accecava, tutto quello che sentiva l´assordava, tutto quello che sapeva lo rendeva ignorante: ogni luce era come un velo fittissimo o una nube oscura: aveva bisogno di contemplare la monotona superficie di un muro; e gridava: «Togliete ogni cosa, perché io possa vedere!». Vittima del «male acuto della precisione», egli idolatrava la chiarezza e la lucidità, sebbene queste doti siano molto più rare dei mostri della leggenda. In quei momenti, egli avrebbe voluto dedicare la sua esistenza alle gioie segrete della Matematica, «quest´arte che richiede soltanto una penna e un foglio di carta»: e può svilupparsi in ogni luogo e in ogni momento, e tanto a lungo quanto vogliamo. Mentre disegnava equazioni, linee, o quadrati e rettangoli netti e inconfutabili, - ecco proprio allora Valéry era assalito dalla malattia opposta, egualmente acuta e insidiosa: «la malattia della possibilità». Se guardava sul bianco della carta, si sorprendeva a rimpiangere le parole rifiutate, gli scarti e le congetture, le immagini che avrebbero potuto essere e non erano state scelte: se vedeva un paesaggio, era costretto a trasformarlo cogli occhi, come se monti e colline, fiumi e pianure fossero stati segni di matita caduti per caso sulla carta; se rifletteva, tutti i suoi pensieri, col loro corteggio di opinioni parallele, gli sembravano soltanto degli elementi particolari di altre combinazioni egualmente possibili... Nulla di tutto quanto ci pare stabile nella realtà e nella nostra mente gli sembrava dotato di una qualsiasi necessità e di una qualsiasi forma. [***] Quanti libri straordinari avrebbero potuto nascere tra i muri anonimi di quella piccola stanza! Poesie di scuola mallarmeana: trattati di matematica fantastica, saggi di stremata eleganza, commedie intellettuali, piccoli romanzi secchi ed aerei; e, forse, qualche libro mai visto, figlio della stravagante collaborazione di un Montesquieu, di un Musil e di un Wittgenstein... Ma quasi nessuno di questi libri vide la luce. Fino a quarantacinque anni, Valéry rimase uno scrittore inedito, circondato da una leggenda che lentamente impallidiva. Un orgoglio ancora più aspro di quello che l´aveva costretto a nascondersi nella sua stanza, lo indusse ad allontanare il desiderio di esprimere i suoi impulsi nello spazio chiuso di un libro: giacché ogni opera letteraria è una falsificazione, che non «rivela l´essere di un autore, ma la sua volontà di apparire». Egli era persuaso che la letteratura - «questo sviluppo mostruoso delle virtù del linguaggio» - corrompe tutto quello che tocca. Appena gremiamo di segni l´immacolata bianchezza del foglio di carta, noi rendiamo estremo quanto era moderato: denso ciò che era raro, intero ciò che era frantumato o diviso, patetico ciò che era soltanto animato, pesante ciò che era lieve come la muta fatica del nostro cervello. Né i libri, né la lingua, né l´espressione verbale lo attraevano: ma gli immensi lavori invisibili ed eternamente incompiuti dello spirito, l´attività sottile del pensiero senza parole. Egli voleva osservare le sostituzioni e trasmutazioni che avvengono nella mente: il gioco delle combinazioni e delle corrispondenze; la successione, la frequenza, la durata delle immagini. Con l´attenzione di uno stenografo, curvandosi su se stesso come chi cerca di duplicarsi e di raggiungere il proprio segreto, egli registrava i primi, irresoluti passi dell´idea: i lunghi attimi di languore, in cui si mostrano agli uomini le ombre delle visioni future: la rete delle connessioni e delle modulazioni, che costringe un pensiero a giungere sino ai confini del mondo; le avventure, i colpi di teatro, le sorprese, i desideri e i sacrifici, le vittorie e i disastri, che avvengono ogni istante, ogni frazione di istante, tra le cave pareti del nostro cranio. Alla fine di questo viaggio, egli comprese che la nostra coscienza non ha nulla a che fare con i suoi contenuti. Tutte le idee, le sensazioni, i sentimenti, i ricordi che l´attraversano, tutte le filosofie che pretendono di interpretarla - sono sostituibili; e vengono superbamente allontanati da lei. La coscienza è «un rifiuto indefinito di essere qualsiasi cosa»: uno spazio vuoto, netto e limpido come il cristallo, che nessun pensiero definito, nessuna parola dei vocabolari potrà mai adombrare od esprimere. Non assomiglia a niente; o soltanto a quell´essere senza viso, senza origine, senza parola, a quel Dio negativo, a quell´X sconosciuto, che, come un giocatore di scacchi, ha azzardato l´ipotesi di questo universo. [*** ] Qualche anno dopo, Valéry cominciò a scrivere e a pubblicare ciò che fino allora aveva tenuto chiuso nel cassetto. Scriveva volentieri su commissione: come nel 1932 il dialogo-apologo L´idea-fissa (Adelphi, nella bella traduzione di Valerio Magrelli, pagg. 156, euro 12), che apparve in un volume stampato da un´industria farmaceutica. Un medico e la controfigura di Valéry conversano sulla riva del mare. Sono entrambi figli dei tempi moderni: dunque dell´attività eccessiva, della velocità, della mobilità intellettuale, del bisogno d´incoerenza, dell´automatismo. I pensieri li divorano e li sfibrano. Parlano di tutto: di ogni questione che, la mattina, dalle quattro alle sei, sollecitava l´interesse di Valéry, il quale le registrava nei suoi immensi Quaderni (cinque volumi sono apparsi da Adelphi). Essi parlano dei termini del nostro vocabolario, che così spesso non posseggono nessun senso: del fatto che non ci conosciamo e che, in generale, non conosciamo niente: dell´infinitamente piccolo, dove sta nascosta la verità: dello sguardo telescopico e di quello microscopico: del caso e delle sue leggi mutevoli: dei nostri atti latenti; dell´io, questo coacervo composto di frammenti di infinite persone, che appare e scivola subito nel nulla. «La mia vita mentale è quella di un Robinson», dice la controfigura di Valéry. Ciò significa, probabilmente, che ogni scrittore è un naufrago, chiuso nel carcere di una piccola isola; e questo naufrago deve reinventare tutto il mondo da capo, con l´aiuto di pochi strumenti costruiti dalle sue mani; la sua vita è un faticosissimo lavoro di precisione, l´hobby di un dilettante maniaco; eppure forma, a poco a poco, l´equivalente dell´universo. Ma i Robinson sono molti, e chiaccherano e divagano e blaterano incessantemente tra loro: non sono mai al posto giusto: ora si confondono con gli altri ora rifiutano di confrontarsi con gli altri; e i pensieri cambiano aspetto, mutano, durano meno di un istante, come schegge brevissime, quasi invisibili. Tra tutti gli spazi del mondo, essi preferiscono la superficie, perché solo di lì è forse possibile raggiungere l´irraggiungibile profondità. Conversare con gli altri è l´unica maniera possibile di pensare: c´è la domanda e c´è la risposta, che non corrispondono mai perfettamente tra loro: conversando, noi rinunciamo all´ordine, adoperando tutti i pensieri causali che ci vengono alla coscienza: un gioco di parole ci trascina chissà dove; ci appassioniamo, ci arrabbiamo, ridiamo, dimentichiamo, nuotiamo e sguazziamo in ciò che si ignora; e poi taciamo per sempre. Nell´Idea fissa, la controfigura di Valéry pretende di giungere alla precisione assoluta. Ma poi non raggiunge nessuna meta, nemmeno modesta. E veniamo a sapere che egli non dorme da venti giorni: eterno insonne, con gli occhi rossi per la fatica. Così non esiste nessuna precisione, nessun rigore, nessuna forma di logica: abbiamo ascoltato soltanto il lungo delirio di un folle che non riesce a dormire. PIETRO CITATI