La Repubblica 9 marzo 2008, ROBERT LOUIS STEVENSON, 9 marzo 2008
Due libri in tasca la ricetta segreta di ogni scrittore. La Repubblica 9 marzo 2008. Negli anni della mia fanciullezza e della mia gioventù sono stato additato come campione di indolenza, nonostante fossi costantemente impegnato a inseguire il mio personalissimo fine: imparare a scrivere
Due libri in tasca la ricetta segreta di ogni scrittore. La Repubblica 9 marzo 2008. Negli anni della mia fanciullezza e della mia gioventù sono stato additato come campione di indolenza, nonostante fossi costantemente impegnato a inseguire il mio personalissimo fine: imparare a scrivere. Portavo sempre nella tasca un libro da leggere e un librino su cui appuntare i miei pensieri. Mentre passeggiavo, la mia mente era occupata a cercare le parole appropriate per descrivere quello che vedevo e, quando mi fermavo a riposare sul ciglio della strada, mi immergevo nella lettura o prendevo la matita e il mio librino da due soldi per annotare i particolari del paesaggio, oppure cercavo di richiamare alla memoria qualche strofa zoppicante. Si può dire che vivessi con le parole, sicché le cose che scrivevo non erano destinate ad altro uso se non a quello di praticare la scrittura. Non desideravo tanto essere uno scrittore (sebbene, in fondo, lo sognassi) quanto consacrarmi a imparare la scrittura. Quella era la competenza che mi allettava più di tutte e mi esercitavo dunque per acquisirla - come colui che apprende a intarsiare - a guisa di sfida con me stesso. Le descrizioni divennero così il mio principale campo di allenamento perché, come chiunque con un po´ di buon senso sa, c´è sempre qualcosa che valga la pena di descrivere, e la città e la campagna non sono altro che fonti di ispirazione continua. Tuttavia, mi davo molto da fare anche in altri generi: spesso accompagnavo le mie passeggiate con dialoghi drammatici, dei quali declamavo da solo tutte le parti; e spesso mi esercitavo a riscrivere interi testi a memoria. Tutte queste cose, senza ombra di dubbio, erano eccellenti, così come lo erano i diari che talvolta cercavo di tenere, ma che poi abbandonavo, sempre e prontamente, trovandoli un esercizio artificioso e un melanconico inganno verso se stessi. Eppure questa non era la parte più efficiente del mio allenamento. Anche se onesta e meritevole, questa pratica mi ha insegnato solo (ammesso che io li abbia imparati) gli elementi più bassi e meno intellettuali dell´arte, oltre a come effettuare la scelta di un eloquio essenziale con le giuste parole. Cose che intelletti più dotati sviluppano per disposizione naturale. E, come allenamento, aveva una grave imperfezione, giacché non mi forniva modelli da raggiungere. C´è stato più profitto, e di certo più sforzo, nel lavoro solitario che conducevo in casa. Ogni qualvolta leggevo un libro o un brano che mi rallegrava particolarmente, nel quale una cosa veniva detta o un passo veniva reso con proprietà indiscutibile, nel quale riconoscevo una considerevole potenza o una felice originalità nello stile, dovevo sedermi subito e capire come imitare quelle qualità. Sapevo che non ci sarei riuscito, ma ci provavo e riprovavo, e non ci riuscivo ancora e ancora e ancora, ma almeno, in questi vani tentativi, acquisivo una certa pratica nel ritmo, nell´armonia, nella costruzione e nella coordinazione delle parti. Così interpretavo il ruolo del pedissequo emulo di Hazlitt, di Lamb, di Wordsworth, di Sir Thomas Browne. E di Defoe, di Hawthorne, di Montaigne, di Baudelaire e di Obermann. Ricordo uno di questi scimmiottamenti, che avevo intitolato Vanità della morale; doveva avere una seconda parte, ovvero la Vanità della conoscenza; e, siccome non avevo né moralità né conoscenza, i titoli erano appropriati. Invero, la seconda parte non venne mai nemmeno abbozzata, mentre la prima parte fu scritta (ed è questo il motivo per cui la rievoco, come un fantasma, dalle sue ceneri) non meno di tre volte: la prima alla maniera di Hazlitt; la seconda alla maniera di Ruskin, che mi aveva stregato con un fugace sortilegio; e la terza volta in un laborioso pasticcio alla Sir Thomas Browne. Similmente avvenne con miei altri lavori [...] Che piaccia o no, questo è il mezzo per imparare a scrivere. Che ne abbia approfittato o no, è questo il modo. Anche Keats imparò a scrivere con siffatto metodo, e non è mai esistito scrittore più fine e portato per la letteratura di Keats. così, se fosse possibile verificarlo, che gli uomini hanno sempre appreso ed è per questo che una rinascita letteraria è sempre accompagnata, o annunziata, dal ritorno a modelli precedenti, sovente ancora freschi. Mi sembra di udire, a questo punto, qualcuno che disapprovi: «Ma non è questo il modo di essere originali!». Non lo è di sicuro, ma è chiaro che non esiste altra maniera di esserlo se non nascendo tali. Del resto, se si nasce originali, niente di questa formazione tarperà le ali della propria originalità. Non ci sarà mai nessuno più originale di Montaigne, e, ovviamente, non c´è alcuno più dissimile da lui di Cicerone, eppure nessuno potrà non accorgersi di quanto l´uno deve aver cercato di imitare l´altro. Burns è un esempio puro di piena intensità nelle umane lettere, eppure, fra tutti gli autori, è sempre stato il più grande imitatore. Lo stesso Shakespeare, il maestoso Shakespeare, proviene da una scuola ed è solo da una scuola che possiamo aspettarci dei buoni scrittori, così come è solo da una scuola che possono scaturire i grandi scrittori, come voci fuori dal coro. Non c´è niente fra le cose dette finora che possa davvero stupire una persona assennata. Prima che possa svelare con sincerità quale stile preferisce, l´aspirante scrittore dovrebbe aver provato tutte le possibilità esistenti. importante, prima di scegliere, che trovi una chiave di lettura che gli calzi a pennello. E, prima di decidere quale sia, lo studente dovrebbe aver praticato ogni scala letteraria e solo dopo anni di tale ginnastica potrà fermarsi a sedere e accorgersi di legioni di parole che si accalcano per una sua chiamata, di dozzine di frasi che aspettano, tutte insieme, solo un suo cenno. Solo allora lo scrittore saprà quello che vuole fare veramente e (nei limiti ristretti dell´umano potere) se avrà la possibilità di farlo. La cosa più rimarchevole di queste imitazioni è che, al di là del tentativo dello studente, risplende il suo inimitabile modello. Lasciamolo quindi provare come più gli aggrada, affinché egli sia consapevole del suo fallimento, poiché, come dice un vecchio detto vero come pochi, il fallimento è l´unica strada maestra verso il successo. Io devo aver avuto qualche predisposizione verso l´apprendimento, perché condannavo apertamente i miei componimenti. Mi è sempre piaciuto moltissimo comporli, ma a lavoro finito mi rendevo conto che erano pattume. Di conseguenza li mostravo raramente, persino ai miei amici, e devo dire che ero stato piuttosto bravo a sceglierli, gli amici, perché avevano l´accortezza di essere diretti nei miei confronti. «Un polpettone» mi disse una volta uno di loro. Un altro mi scrisse: «Non riesco a capire perché componi delle liriche così sgraziate». Ma io non demordevo! Per tre volte cercai di opporre un secco e perentorio rifiuto a quelle critiche e inviai i miei scritti a una rivista: mi furono respinti e io non ne fui né sorpreso né amareggiato. In effetti, se non gli era stata data la dovuta attenzione, come (visto che ero un dilettante) credevo fosse avvenuto, non serviva a niente ripetere l´esperimento; ma se invece erano state vagliate con cura, allora significava che non avevo ancora imparato a scrivere e che dovevo continuare ad apprendere, e a vivere. In seguito ebbi un briciolo di buona sorte, ciò che è il motivo di questo scritto, ed ebbi così l´occasione di poter vedere la mia letteratura stampata, oltre a quella di sperimentare quanto fossi ancora ben lontano dalla benevolenza del pubblico. La Speculative Society è un sodalizio di una certa vetustà che ha annoverato tra i suoi membri Scott, Brougham, Jeffrey, Horner, Benjamin Constant, Robert Emmet e molte altre vecchie glorie legali e locali. Per una curiosa combinazione, spiegata nei modi più diversi, essa ha sede nelle stanze del palazzo dell´università di Edimburgo: un ingresso, adorno di tappeti ottomani e raffinati quadri alle pareti, che alla sera, rischiarato dalla luce di molte candele, può apparire come una suggestiva sala da pranzo; un androne-biblioteca, con le pareti tappezzate di libri nelle loro gabbie di metallo; e un corridoio in cui si trovano un caminetto, alcune panche, un tavolo, stampe di soci famosi appese al muro e una targa in memoria delle virtù di un vecchio segretario. Qui dentro un socio può riscaldarsi, poltrire o leggere; qui dentro si può anche fumare, a dispetto della consulta del Senato accademico. Il Senato guarda con sospetto a tali privilegi, guarda addirittura con aspra diffidenza all´intera Società, il che dimostra la mancanza di senso della misura nella mente dell´erudito, poiché il mondo - possiamo esserne sicuri - premierà molto di più questo branco di leoni morti che i cani vivi e vigorosi del professorato. Un mattino, era dicembre, me ne stavo seduto nella biblioteca della Speculative. Ero un giovane pieno di umiltà e, anche se era una virtù, non ne venivo mai troppo ripagato. Ero orgoglioso dei miei privilegi come membro della Spec, orgoglioso della pipa che stavo fumando in barba al Senato e, in particolare, orgoglioso di essere in una stanza che mi permetteva di essere vicino a tre studenti davvero meritevoli, che conversavano amabilmente accanto al caminetto del corridoio. Uno di questi ha ora il nome sulla costa di diversi volumi e la sua voce, ho sentito dire, è molto influente nelle aule di tribunale. Quello che pensavo del secondo lo avrei detto solo alla sua morte. Anche il terzo era riuscito a scampare alla battaglia della vita nella quale bisogna combattere duramente, anche se può essere cosa molto sconsiderata. Come ho detto, erano tutti e tre studenti degni di grande nota, ma quest´ultimo era il più ragguardevole. Ricco, affascinante, ambizioso, avventuroso, diplomatico, grande lettore di Balzac e, fra tutti gli uomini che io abbia mai conosciuto, il più simile a uno dei personaggi di Balzac. Egli conduceva una vita - ed era accompagnato da una sorte avversa - che avrebbe potuto essere rappresentata nella Comédie humaine. Aveva, già allora, messo gli occhi sul Parlamento e ricordo che, poco dopo il tempo di cui sto scrivendo, tenne un eloquente discorso a un pranzo politico. Il giorno seguente fu innalzato al di sopra del cielo dal Courant, mentre quello ancora dopo fu gettato dallo Scotsman più in basso della terra stessa con l´accusa di plagio. La redazione aveva ricevuto delle informazioni (oserei dire, molto erroneamente) da una persona di cui lui si fidava molto e che, invece, lo aveva tradito. [...] Quel colpo avrebbe spezzato anche lo spirito più forte, e credo che rese lo studente alquanto avventato, perché si precipitò a Londra e là, in un circolo di dissipati, si dedicò a sperperare il suo considerevole patrimonio nello spazio di un solo inverno. [...] Lo studente riapparve sulla scena dopo la mondana assenza e, di lì a poco, in veste di benevolo direttore di giornale, mi ritrovò. [...] Dopo tutti quegli alti e bassi appariva nuovamente tranquillo, come il ricco studente che era stato tempo addietro, del tutto a suo agio, e sembrava perfettamente sicuro di se stesso e certo della sua meta. Eppure sarebbe mancato poco alla sua ultima sconfitta. Aveva fondato la cosa più bizzarra della nostra Società: uno di quei fogli periodici con cui gli uomini suppongono di imparare a farsi delle opinioni e in cui i giovani gentiluomini delle università sono incoraggiati, a un tanto a riga, a falsificare i fatti, a insultare Paesi stranieri e a calunniare privati cittadini; e che sono diventati fonte di gloria, tanto che se il nome di un uomo è lì stampato abbastanza spesso, questi diventa una specie di semidio. [...] Questi tre studenti erano seduti, come dicevo, nel corridoio, sotto la targa che ricordava le virtù di Macbean, vecchio segretario. Sorridevamo spesso di quel ricordo privo di eloquenza e consideravamo poca cosa essere stati al mondo lasciando dietro di sé solo una targa, come era stato per Macbean. Eppure di quei tre, due se ne sono andati e hanno lasciato ancor di meno. E questo libro, forse, quando sarà vecchio e consunto, e qualcuno lo scoverà in un cantuccio di una libreria, e darà un´occhiata ad esso, sorridendo agli antiquati e sgraziati giri di frase, e forse - per amore dell´Alma Mater (che potrebbe essere ancora esistente e rigogliosa) - lo comprerà, non senza mercanteggiare sul prezzo, per pochi spiccioli... questo libro, dicevo, potrebbe da solo preservare la memoria di James Walter Ferrier e Robert Glasgow Brown. I loro pensieri fluivano in modo molto diverso, quel mattino di dicembre. Erano tutti incendiati dall´ambizione e, quando mi chiamarono tra di loro, per mettermi a parte dei progetti che avevano in mente, anche io mi ubriacai di orgoglio e speranza. Avremmo dovuto fondare un giornale universitario. Due fratelli assai operosi, di nome Livingstone, dai piedi sempre saltellanti e grandi strofinatori di mani, che avevano una libreria dirimpetto al palazzo dell´università, erano stati sedotti a fare la parte degli editori. Noi quattro saremmo stati direttori congiunti e, punto principale della questione, avremmo stampato i nostri lavori. Quell´avventura, secondo ogni regola matematica - grande lusinga dei creduloni - avrebbe avuto grande successo e portato cospicui profitti. Bene, dunque, proprio bene, era una prospettiva luminosa. Quella mattina tornai a casa camminando a un metro da terra. Essere stato scelto da quei tre studenti meritevoli era per me un´affermazione indicibile. Era la mia prima sorsata di notorietà e mi riconciliava con me stesso e con i miei compagni e, mentre mi dirigevo verso il mio nuovo trono, non potevo trattenere le mie labbra dal sorridere pubblicamente. Eppure, nel profondo del mio cuore, sapevo che quel giornale sarebbe stato un amaro fiasco; sapevo che non sarebbe valsa la pena di leggerlo; soprattutto, seppure ne fosse valsa la pena, sapevo che nessuno l´avrebbe letto; e continuavo a chiedermi se sarei stato in grado, con la mia esigua rendita di dodici sterline annuali, incassata mensilmente, a fronteggiare la mia parte di spese. Il pensiero di avere un padre era assai confortante. Il giornale si fece, con una copertina gialla che era la sua parte migliore, perché almeno era senza pretese. Andò avanti per quattro mesi in indisturbata oscurità, poi morì senza un rantolo. Il primo numero venne curato da tutti e quattro noi con prodigioso zelo, il secondo finì quasi totalmente nelle mani di Ferrier e mie, del terzo me ne occupai da solo e fu oggetto di disputa solenne chi dovesse realizzare il quarto. E sarebbe stato ancora più difficile capire chi mai l´avrebbe letto. Povera copertina gialla, così speranzosa nella vetrina dei Livingstone! Povero giornale inoffensivo, che avrebbe potuto pubblicare un novello Shakespeare e invece era così goffamente deturpato da sciocchezze senza senso! E forse dovrei aggiungere, poveri editori! Non posso provare compassione per me stesso, perché per me c´era solo da guadagnare. Non provai nulla di nuovo, quindi: ebbi solo la piena conferma del mio giudizio quando il giornale lottò perché, appena nato, si ammalò all´istante e scomparve nel cuore della notte. Ne avevo mandata una copia alla signora a cui il mio cuore in quel periodo era, in qualche modo, legato e che fece tutto il possibile per spezzarmelo. Se pur con tatto, la dama in questione rispose al mio dono gentile, e ai miei diletti articoli, con il silenzio. Non posso certo dire che ne fui contento. Ma ora le direi, se per caso prendesse in considerazione il lavoro del suo vecchio servitore, che pensavo che avesse miglior gusto. Dopo questo fidanzamento perduto, affilai le armi ed ebbi con mio padre l´indispensabile colloquio, che non fu senza esito. Pagai la mia parte di spese ai due fratelli operosi, che si strofinavano le mani come prima, ma mi sembrava saltellassero un po´ meno di prima, essendosi forse, anche questi due, imbarcati nell´impresa con troppe illusioni graziose. In seguito, ripensando a quell´episodio mi sono detto che i tempi non erano ancora maturi e l´uomo non ancora pronto. Perciò, tornai a lavorare con i miei libri da due soldi, essendo precipitato, in un sol giorno, da autore stampato a studente manoscritto. ROBERT LOUIS STEVENSON