La Stampa 10 marzo 2008, ANNA SANDRI, 10 marzo 2008
Vincenzo, il ladro gentiluomo di Venezia. La Stampa 10 marzo 2008. Dei suoi 65 anni, venticinque li ha passati in carcere e sempre per la stessa condanna: furto, furto, furto
Vincenzo, il ladro gentiluomo di Venezia. La Stampa 10 marzo 2008. Dei suoi 65 anni, venticinque li ha passati in carcere e sempre per la stessa condanna: furto, furto, furto. Da uomo libero ha camminato più sui tetti che tra le calli, eppure se il suo nome e il suo volto a Venezia sono così famigliari non è per le foto segnaletiche. Vincenzo Pipino lo conoscono tutti perché è il ladro di una volta, quello che «al derubato devi sempre dare una possibilità di reazione, altrimenti è violenza», quello che fa l’elemosina a chi la chiede, quello che perfino sul palazzo di Damiani svaligiato a Milano poche settimane fa ha qualcosa da ridire. «Basta con la banda del buco: non è sufficiente passare da un muro per farsi chiamare così. Il primo furto con il buco l’abbiamo fatto noi. Un po’ di rispetto». Avesse potuto brevettarlo, lo avrebbe fatto. E poi: «Quello di Damiani non è un furto ma una furtina». E la «furtina», naturalmente, è parola coniata da lui: «E’ a metà tra il furto e la rapina, e quando sento puzza di rapina non mi piace». Il debutto sfortunato Il primo colpo grosso a quattordici anni, seguendo un americano fin sulla spiaggia del Des Bains al Lido. L’americano stava in capanna tra i ricchi. Un attimo di distrazione e dalla camicia del turista sparisce l’equivalente di duecentomila euro. Tutti splendidi, inutili dollari: «Per cambiarli ci voleva una firma in banca». In compenso, sette mesi di carcere. Nel suo genere, un professionista: sulle condanne non ha mai fatto una piega, anzi si lamenta della giustizia di oggi, perché c’è stato un tempo in cui se ti davano sei anni, sei anni facevi. Ha un cultura - soprattutto in storia dell’arte - grazie alla quale potrebbe tenere conferenze. Preferisce applicarla diversamente. E così quel giorno che entra in un gran palazzo veneziano per rubare gioielli e si trova davanti invece un Canaletto, gli vengono le lacrime agli occhi: «Era sul muro, in una stanza buia. Pareva che mi chiamasse, che mi pregasse di portarlo via da lì. Cosa dovevo fare: lasciarlo lì?». Sia mai. Via con il Canaletto sotto il braccio, prima con il barchino poi in auto fino a Roma. Quadro recuperato, Pipino in galera: «Ma lo rifarei». Il bilancio gli è a favore: i furti per cui ha pagato sono molti, ma tanti di più sono quelli rimasti senza un colpevole. Nei palazzi veneziani: «Me lo ricordo bene quello dal grande industriale, quello che ha negozi in tutta Italia. A parte che ho portato via di tutto, sono rimasto senza parole: quanto sporco, ma quanto sporco. Sono uscito con i calzetti da buttar via. E quando adesso li vedo per la strada penso: tanta boria, ma potreste lavarvi un po’ di più». La vecchia avara Non dimentica quella sera che sul ponte c’era un poveretto che chiedeva l’elemosina: «Uno senza un braccio. Sto per dargli qualcosa, passa una vecchia carampana con una pelliccia lunga fino a piedi. Lo guarda e gli dice, ma vai a lavorare. Mi sono imbestialito. L’ho seguita fino a casa». Tre ponti, due calli e finalmente la signora infila un portone. Dopo due minuti si accende una luce: Pipino annota e se ne va. La punta. La controlla, sera dopo sera. Dopo un mese è pronto e al momento buono entra e porta via tutto. «Arrivato a casa mi sono accorto che avevo preso anche le ceneri del marito. Io ho sempre restituito quando per sbaglio rubavo cose particolari, magari la catenina del figlio morto, la fede del matrimonio. Ma quel poveretto in polvere, dentro quel sacchetto, mi faceva troppa pena: anche dopo morto con quell’arpia. L’ho portato sul ponte di Rialto, ho aperto il sacchetto e gli ho detto vai, che stai meglio libero». Le case sono il passatempo, la professione è nelle gioiellerie. «Siamo ancora noi e solo noi la vera banda del buco». Per quella che Pipino chiama «la scuola veneziana», ogni negozio ha cinque punti deboli. Esclusa la vetrina, se soffitto, pavimento o uno degli altri tre lati confinano con un appartamento o magazzino vuoto, allora «è il gioiello che ti chiama». Si lavora in pieno giorno a bucare fino a quando resta solo un filo di malta: la preparazione può durare mesi. A quel punto basta aspettare il momento buono, di solito la pausa pranzo. Un soffio, il muro va giù e il resto è un gioco da ragazzi. Non è un mestiere nobile, Pipino: «Ma io non mai fatto male a una mosca, e ho aiutato tanta gente. Potrei essere milionario, invece abito alla Giudecca in un alloggio del Comune». Non è colpa sua, dice, se nessuna casa è inviolabile, per quanto ci spendi di allarmi. Un modo per blindarsi davvero esiste, dice, ma non se lo possono permettere tutti: «Bisogna conoscere Pipino e dirgli ”vien darme un ocio a casa". Io arrivo, guardo e ti dico: lì, lì e lì. Proteggi quei tre punti e sta sicuro: non entra più nessuno». ANNA SANDRI