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 2008  febbraio 23 Sabato calendario

Quel vassoio spezzato in Kosovo. Il Giornale 23 febbraio 2008. Nella primavera del 1981, e precisamente l’11 marzo verso mezzogiorno, nella mensa della università di Priština uno studente buttò per terra il proprio vassoio con tutti i piatti

Quel vassoio spezzato in Kosovo. Il Giornale 23 febbraio 2008. Nella primavera del 1981, e precisamente l’11 marzo verso mezzogiorno, nella mensa della università di Priština uno studente buttò per terra il proprio vassoio con tutti i piatti. Pare che in tal modo intendesse protestare per la scarsa qualità del cibo servito agli studenti. In un batter d’occhio fu tutto un volare di piatti, la moltitudine degli studenti si riversò dalla mensa nello spiazzo antistante l’università, qualcuno cominciò a scandire «Kosovo Repubblica». Dopo qualche ora le vie di Priština erano affollate di 20.000 manifestanti. Benché la costituzione del 1974 avesse concesso al Kosovo un’ampia autonomia, la popolazione albanese, maggioritaria in quella regione sotto sviluppata della Jugoslavia, si era sempre sentita economicamente, politicamente e culturalmente emarginata, se non addirittura discriminata. Con lo slogan «Ko- sovo Repubblica» la regione serba autonoma del Kosovo enunciava la propria ambizione di diventare la settima Repubblica jugoslava, il che avrebbe ovviamente implicato la necessità di una secessione dalla Serbia. Ma allora un fatto del genere era del tutto inconcepibile. Le autorità reagirono con irritazione e violenza. Era trascorso meno di un anno dalla morte del carismatico dittatore comunista Josip Broz Tito e ovunque nel vasto Paese regnava l’incertezza. Le dimostrazioni vennero dichiarate scioviniste e accusate di «attentare alla fratellanza e all’unità, le più luminose conquiste della rivoluzione». La protesta fu soffocata nell’arco di qualche giorno, alcune migliaia di persone furono arrestate, iniziarono le purghe nei confronti dei comunisti albanesi. Gli studenti albanesi scarcerati raccontavano di essere stati costretti a percorrere i cosiddetti «tunnel di sardina», lunghi corridoi nei quali spietati poliziotti li picchiavano selvaggiamente. Dieci anni dopo quel vassoio gettato per terra nella mensa dell’università di Priština, la Jugoslavia si disgregò. In mezzo ci fu un decennio di vani sforzi per democratizzare e mantenere unito uno Stato in cui imperversava una spaventosa inflazione e in cui i conflitti interetnici si accumulavano aggravandosi continuamente. Le varie riforme economiche ei numerosi progetti di una confederazione in grado di garantire uno sviluppo autonomo a regioni culturalmente ed economicamente differenti l’una dall’altra, restavano lettera morta o si rivelavano invariabilmente inefficaci. In Serbia salì al potere Miloševic, che lungi dal condividere l’idea di una possibile Repubblica del Kosovo, privò quest’ultimo anche della sua pluriennale autonomia. Sulla «piana dei merli» -il celebrato «Kosovo polje», luogo mitico della storia serba, dove nel XIV secolo ebbe luogo l’epica battaglia (in cui i Serbi subirono una memorabile disfatta per opera dell’esercito turco)- Miloševic non esitò a minacciare esplicitamente il ricorso alle armi. Eppure allora nessuno ancora credeva che ciò potesse succedere davvero. I manifestanti di Priština nel 1981 avevano esibito l’effigie di Tito come simbolo dell’unità jugoslava, e la stessa assurda scena si era costantemente ripetuta, nel decennio della disunità e della disgregazione, in tutta la Jugoslavia, fino alla sparatoria avvenuta a Sarajevo- contro dimostranti con il ritratto di Tito -e lo scoppio della guerra in Bosnia. L’equivoco di fondo è stato secondo me proprio questo. La Jugoslavia si è dissolta perché era una dittatura. Anche la crisi kosovara del 1981 fu affrontata con i tipici mezzi di cui si avvalgono solo le dittature. Ma invece di essere arginata, la crisi dilagò per tutto il Paese per culminare poi nella dissoluzione della Jugoslavia e negli orrori della guerra. Il Partito comunista jugoslavo e il suo esercito non erano pronti ai cambiamenti che andavano preannunciandosi in tutta l’Europa dell’Est, perché erano assolutamente alieni da ogni idea di dialogo democratico. In un simile apparato di potere inetto e impreparato a qualsiasi metamorfosi, negli anni Ottanta incomin- ciò a insinuarsi con pervasività crescente un irrazionalismo permeato di anacronismi storici. La cosiddetta «prima Jugoslavia», che in origine si chiamava Regno dei serbi, croati e sloveni, aveva iscritta nel proprio nucleo di valori una concezione della Serbia come di una sorta di «Piemonte jugoslavo». Da un minuscolo staterello era sorto il grande regno jugoslavo, in seno al quale pareva che proprio ai serbi fosse demandato il compito di unificarlo non solo da un punto di vista politico, ma anche culturale e perfino linguistico. Negli anni Venti nacque l’Orjuna, un’organizzazione di nazionalisti jugoslavi, i cui membri in uniforme nera solevano non solo sbaragliare gli operai in sciopero, ma anche e soprattutto opporsi sia a qualsiasi separatismo di matrice nazionale sia al riconoscimento di ogni differenza culturale. Poiché tuttavia l’operato dell’Orjuna non produsse i risultati desiderati, non restò che rinnovare il tentativo di rendere la Jugoslavia uno stato unificato. Tale tentativo si concretizzò nella dittatura del 1929. Ma anche la «seconda Jugoslavia», quella comunista di Tito, fu una dittatura. E proprio negli anni Ottanta, quando la dittatura pareva agli sgoccioli e lo Stato avrebbe dovuto virare con decisione verso la democrazia e i suoi valori, riprese inaspettatamente vigore la solita, vecchia e irrazionale storia che si nutre di miti: la Serbia è il Piemonte jugoslavo e il Kosovo è il cuore della Serbia. E la sua anima. Il legame dei serbi verso il Kosovo è storicamente fondato, poiché in effetti proprio il Kosovo fu il centro dello stato serbo medioevale; in questa regione sorgono ancora oggi i monasteri edificati dai re serbi, monasteri che rappresentano il retaggio di un’ illustre tradizione pittorica e architettonica medioevale. Ma negli anni Ottanta la realtà era ormai ben diversa. La maggioranza della popolazione del Kosovo era da tempo albanese. Lo ricordo bene, era il 1979. Eravamo seduti nella bellissima arena romana di Pola, dove ogni estate veniva proiettata sotto il cielo stellato e davanti a un folto pubblico la nuova produzione cinematografica jugoslava, quell’anno già senzaTito, fino ad allora assiduo frequentatore del festival. Prima di un film di argomento partigiano venne proiettato un documentario etnografico sul Kosovo. Raccontava la vita di una numerosa famiglia albanese, una sola casa ne ospitava varie generazioni. Il finale occupava mezzo film e mostrava tutti i singoli membri della famiglia che scendevano le scale uno dopo l’altro, dal più giovane al più vecchio. Non so quanti fossero, forse cento o addirittura più, ma il messaggio era chiaro: noi siamo qui. Potete considerarci arnauti o gli schipetari di Karl May, potete dire che ci siamo propagati come gramigna per l’antica regione serba, ma noi siamo qui e nessuno può mutare questa realtà. Realtà che i serbi, i quali hanno dunque davvero nel Kosovo i propri monumenti antichi, la «culla della propria cultura», non hanno mai potuto accettare del tutto. Eppure era evidente fin da allora che gli albanesi non avrebbero più tollerato a lungo i diktat di Belgrado. E infatti due anni dopo a Priština esplose il malcontento, dando luogo alle prime dimostrazioni di cui abbiamo già detto. Oltre che di questioni sociali, si trattava sempre più anche di conflitti di carattere etnico. E in conflitti di questo genere nessuna delle parti è mai del tutto innocente. Nel Kosovo -tanto all’epoca della dittatura monarchica quanto in quella della dittatura comunista- i serbi si facevano valere con la forza dell’apparato statale, ma gli albanesi potevano contare sulla forza del loro predominio numerico. Le prepotenze, anche le sopraffazioni ai dan- ni degli appartenenti alla minoranza serba non sono certo cominciate ieri. però vero che le aggressioni perpetrate verso la minoranza serba si sono sensibilmente intensificate dopo il po- grom contro gli albanesi del Kosovo voluto da Miloševic, al quale fece seguito il bombardamento Nato di Belgrado. Le immagini di chiese serbe avvolte dalle fiamme, risalenti a qualche anno fa, fanno parte dei capitoli più tristi della recente storia europea. A questo proposito devo dire di avere vanamente atteso una chiara parola di condanna di questo scempio da parte degli intellettuali albanesi del Kosovo. Nulla più della capacità di tutelare adeguatamente le minoranze rende la misura della capacità di vivere democraticamente. Proprio per questo lo Stato indipendente del Kosovo, proclamato qualche giorno fa, è gravato insieme ai suoi uomini politici e ai suoi intellettuali di un’enorme responsabilità verso il futuro che a tale proclamazione seguirà. Di una grande responsabilità si sono prese carico anche l’Ue e l’intera comunità internazionale. Esse infatti si sono non solo assunte l’onere -dopo la Bosnia- di un altro protettorato, di una nuova missione di lawand order che richiederà in genti mezzi sia in termini finanziari che in termini di impegno. Ma d’ora in poi dovranno anche rispondere di eventuali persecuzioni o discriminazioni nei confronti della minoranza serba del Kosovo. Oggi pare che si stia svolgendo l’ultimo capitolo della crisi balcanica. Dieci anni dopo quel vassoio scagliato a terra nella mensa dell’università di Priština, la Jugoslavia si dissolse. Più di un quarto di secolo dopo, il Kosovo ha proclamato la propria indi- pendenza. Mentre scrivo quest’articolo, Belgrado si sta preparando a un’adunata di protesta, alla quale sembra parteciperà un milione di persone. Una tale massa si radunò durante le ultime ore di vita della Jugoslavia. Qualcuno esclamò «dateci le armi». Ma coloro che avevano gridato e che poi vennero davvero armati, stanno indubitabilmente scomparendo dall’arena della storia. A noi resta la speranza che i giovani di oggi, che allora non erano ancora neppure nati, non ripetano mai più cose del genere. L’Europa stia all’erta e tenda l’orecchio, perché non le capiti un’altra volta di non udire un’ invocazione di guerra, da qualunque parte essa provenga. Ai Balcani ha prestato ascolto troppo tardi, quando a Sarajevo già divampava l’incendio. Ma oggi la nostra speranza ha buon fondamento. In primo luogo per la tragica esperienza del nostro recente passato. E in secondo luogo per la stessa natura delle cose: nell’Europa democratica, di cui domani faranno par- te anche la Serbia e il Kosovo, non potrà più accadere che qualcuno butti per terra un vassoio in una mensa universitaria e che poi le autorità in preda al panico costringano migliaia di dimostranti a percorrere i famigerati «tunnel di sardina». Drago Jancar