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 2008  febbraio 28 Giovedì calendario

NATI grazie a 300 euro al mese. Panorama 28 febbraio 2008. Fazzoletti per asciugare le lacrime e caramelle per far passare la nausea che quasi sempre accompagna i primi mesi di gravidanza

NATI grazie a 300 euro al mese. Panorama 28 febbraio 2008. Fazzoletti per asciugare le lacrime e caramelle per far passare la nausea che quasi sempre accompagna i primi mesi di gravidanza. E poi poltrone comode, un po’ di musica in sottofondo, e l’eco sempre più lontana di lettini ginecologici, camici bianchi, moduli da compilare. Ci sono incontri che salvano una vita. Ci sono parole, ma soprattutto fatti concreti, capaci di far nascere un bambino. Dimenticate tutto quello che sapete o avete solo immaginato riguardo a consultori familiari o teorie anti-abortiste: quella nata 24 anni fa alla Mangiagalli di Milano, clinica da 1.800 aborti l’anno, è tutta un’altra storia. Per capirlo bisogna inerpicarsi su fino al terzo piano di via della Commenda 12 (scala H), da mesi senza ascensore per via di un restauro che tarda a finire, e bussare alle porte del Cav (Centro di aiuto alla vita, il primo in Italia nato all’interno di un ospedale). qui, nelle accoglienti stanze del sottotetto di questa clinica ginecologica tra le più famose, che 1.600 donne l’anno chiedono aiuto. E lo ricevono. Non si tratta solo di supporto psicologico, che non manca mai e però da solo non basterebbe. Il metodo Cav Mangiagalli, ideato e sostenuto dalla sua fondatrice, Paola Bonzi, è fatto di aiuti concreti: un sussidio mensile che va dai 160 ai 300 euro per tutta la gravidanza fino all’anno di vita del bambino. Abiti prémaman, fornitura completa di pannolini, latte in polvere, corredini e vestitini dalla nascita ai 12 mesi. E ancora passeggini, culle, lettini, fasciatoi e giocattoli, oltre a pediatra e ginecologo. Tutto gratis, in cambio di una vita. Bonzi ne è convinta: «Metà degli aborti è dettata da problemi economici». I numeri sembrano darle ragione: lo scorso anno il Cav Mangiagalli, grazie ai suoi sussidi, ha fatto nascere 833 bambini: un record. L’anno prima i bimbi strappati all’aborto sono stati 675; alcune migliaia in vent’anni. Ma quanto costa la vita di un bambino nella produttiva e benestante Milano? E chi sono le donne che rinunciano all’interruzione di gravidanza per una cifra che molti potrebbero giudicare un’inezia? Panorama ne ha incontrate cinque. Donne diverse, straniere e italiane, con una laurea nel cassetto o solo il permesso di soggiorno in tasca, ognuna con la propria storia, ma tutte con lo stesso comune denominatore: erano entrate in ospedale per abortire e invece sono diventate mamme. Una rivoluzione avvenuta e vissuta proprio lì nelle stanze del Cav, durante i 45 minuti di colloquio che precedono di poco, pochissimo tempo il ricovero e la sala operatoria e che loro hanno deciso di raccontare. tiziana rossato «In 45 minuti tutto è cambiato» Tiziana arriva luminosa e solare, a dispetto delle notti in bianco. Ai piedi scarpe da ginnastica, al collo un porte-enfant blu. Dentro uno scricciolo di nome Federica. Guardi Tiziana e pensi che in questo momento non potrebbe fare che quello: prendersi cura della sua bambina nata poco più di un mese fa, il 13 gennaio. Serena, tranquilla, nessuna incertezza tra biberon, misurini e gocce contro le coliche. Calma anche quando Federica a un certo punto reclama la sua pappa e urla tanto che verrebbe voglia di chiamare i soccorsi per farla smettere. Avrà preso dalla madre. Tiziana deve averle trasmesso la sua stessa determinazione, quando scopertasi incinta e sapendosi sola ha gridato la sua richiesta di aiuto ai consultori di zona ricevendo in cambio porte chiuse o braccia allargate in segno di impotenza. «Federica non ce l’avrebbe fatta se non avessi incontrato il Cav» dice. La sua storia inizia a maggio dello scorso anno, quando «un ritardo del ciclo e mi sono ritrovata in mano il trittico della sfortuna: disoccupata, senza marito, incinta». Tiziana ha 38 anni, una laurea in scienze politiche, un anno di studio in Francia, un anno in Africa. Molti amici, una vita ricca di impegni. «Lavoravo nel reparto commerciale di una ditta con un contratto di assunzione, fino a che non ha chiuso. Senza un impiego fisso mi ero data da fare inserendomi nel catering con contratti a termine e orari soprattutto serali. In quel periodo avevo avuto una relazione che però si era interrotta. Quando ho scoperto di essere incinta ho pensato: e adesso? Come faccio se non posso neppure lavorare? Chi paga il mutuo della casa? Chi lo dice a lui? Chi lo dice ai miei? Il test positivo era stato un dramma. Mia sorella, che non voleva sentir parlare di aborto, mi consiglia di andare in un consultorio. Qui un’assistente sociale mi dice: ”Signora, la gravidanza ai nostri giorni è una scelta consapevole”. Mi è cascato il mondo addosso. Ho pensato: vado ad abortire». I consultori, appunto. «Non è raro che una donna prima di arrivare da noi al Cav» spiega Paola Bonzi «sia già passata dai consultori e non abbia trovato sostegno. Pur essendo nati per far fronte alle emergenze e offrire aiuto, spesso mancano di preparazione e di senso di responsabilità degli operatori. molto difficile prendersi in carico la sofferenza di una donna che non vuole abortire e aiutarla a vedere le cose, la vita che ha in grembo in maniera positiva. Ma c’è di più. Siamo all’interno della Mangiagalli da 24 anni e le donne arrivano da noi ancora per caso. La legge 194 impone agli ospedali di offrire la possibilità di un colloquio di riflessione. Ma non specifica chi debba tenere questo colloquio, tanto che in molti casi è lo stesso ginecologo che chiude la questione con uno sbrigativo: ”Signora, è proprio sicura di voler abortire?”. Ecco, questo è il colloquio di riflessione». Anche Tiziana arriva al Cav per caso. Dopo essersi rivolta anche al comune del paese nell’hinterland milanese dove abita. Con una richiesta semplice: «Sono incinta, sola e con un lavoro precario. Cosa c’è per me? La risposta: niente. E questo è scandaloso. Abortire a quel punto significava salvarmi l’esistenza». Nei pochi giorni che la separano dal termine ultimo consentito per l’interruzione volontaria Tiziana sente parlare del Cav alla Mangiagalli. «Mi presento così, con una sola parola: aiuto. Dopo 10 minuti arriva una psicologa del centro, Paola Persico. Un angelo». Tiziana estrae dalla borsa un foglio scritto a penna. «Paola non mi offre parole, ma fatti. Ecco qua, su questo foglio scrive quello che mi possono dare per aiutarmi se decido di tenere mia figlia: 160 euro al mese, il corredino per 18 mesi, la borsa della spesa, i pannolini, più l’appoggio psicologico con una visita ogni 15 giorni, oltre a pediatra e ginecologo. Questi 45 minuti mi hanno cambiato la vita. E l’hanno data a Federica». juanna quispec «Non volevo niente, mi hanno dato tutto»  una donna minuta, ma energica, Juanna. Con tre figli piccoli non potrebbe essere diversamente. peruviana, ha 33 anni, da 11 in Italia. Ha un permesso di soggiorno e adesso anche un lavoro, come assistente in un centro per anziani. Ha una casa, fuori Milano perché in città gli affitti erano insostenibili, un marito anche lui con un lavoro. Ma non è sempre stato così. Era in Italia da sola quando, già con una figlia di tre anni, ha scoperto di essere di nuovo incinta. Il marito appena arrivato senza lavoro e senza saper dire una parola in italiano e lei disperata sul lettino delle ecografie del San Paolo davanti a una dottoressa che le dice: «Complimenti signora, sono due gemelli». «Mi sono messa a piangere. Da un lato pensavo che bello, dall’altro mi dicevo: siamo senza soldi, con l’affitto da pagare, non riusciamo a tirare avanti così, figuriamoci se porto avanti la gravidanza. Avevo un lavoro precario, mi avrebbero licenziato di sicuro. Ero disperata. Tanto che ho chiesto alla dottoressa una follia, di togliermene almeno uno. La dottoressa mi ha detto che era impossibile, ma mi ha indicato il Cav dicendomi che lì aiutavano le mamme a evitare l’aborto». Juanna è profondamente cattolica: «Per me la vita è sacra fin dal primo momento. Ma che vita sarebbe stata in mezzo a una strada?». Così si è presentata al Cav. Senza speranze, tanto che in un primo momento bussa alla porta della segreteria e lascia solo il suo numero di telefono. Spiega Bonzi: «Qui c’è sempre uno psicologo di emergenza. Il tempo è fondamentale in queste circostanze. Una donna che si presenta da noi nel primo trimestre di gravidanza a rischio aborto deve subito trovare una risposta. Se le si dice di tornare potrebbe non succedere più. Questo non significa che noi andiamo nei reparti a convincere le donne a non abortire. Ci hanno accusato, sì, di andare in giro mostrando i feti in un’ampolla. Il nostro lavoro è sempre stato quello invece di accogliere chi bussava alla nostra porta». Nel 1984, quando il consiglio d’amministrazione della Mangiagalli, a sorpresa, votò a favore del Cav all’interno della clinica (una votazione talmente sorprendente che ai consiglieri venne chiesto di ripeterla), il direttore sanitario volle sapere di quanti camici bianchi avessero bisogno per andare nei reparti. La risposta fu «nessun camice». «Andare nei reparti sarebbe stata una violenza in più sulle donne. Il problema è che non tutte vengono avvertite della nostra esistenza. Se oggi non esiste più un atteggiamento ostruzionistico nei nostri confronti, purtroppo il grosso lavoro di informazione iniziato da Giorgio Pardi (primario alla Mangiagalli e scomparso lo scorso anno) non è ancora stato raccolto». Lui, che pure non era obiettore, aveva dimostrato pubblicamente la sua stima per il lavoro del Cav, tanto da suggerire ai suoi collaboratori di informare sempre la donna che voleva abortire di quest’altra prospettiva. Grazie al numero di telefono lasciato in segreteria Juanna viene contattata da un’operatrice: «Non mi aspettavo niente. Mi hanno dato tutto. Dai soldi per l’affitto alle mensole sopra i lettini dei miei bambini, alla borsa della spesa una volta alla settimana». Oggi Diego e Giovanni hanno quasi due anni. liana de simone «Sola com’ero, non potevo farcela» Era il giorno del suo compleanno. Ma la data del 16 novembre non l’avrebbe dimenticata comunque. Quella mattina Liana, all’ottava settimana di gravidanza, aveva varcato la soglia dell’ospedale Buzzi. Stava facendo gli esami preoperatori per abortire. Era il suo compleanno e non riusciva a smettere di piangere. Il compagno, quando aveva saputo che era incinta, se ne era andato. Suo fratello le aveva detto che l’aborto era difficile, sì, ma che nelle sue condizioni forse era la cosa migliore. Al consultorio la dottoressa le aveva fatto presente che la sua situazione era tutt’altro che facile. In tanti le ripetevano che «poi tutto sarebbe passato». «Tutto passato? Io sentivo che non sarebbe passato proprio niente. Perché ero lì in ospedale?» mi chiedevo. «Ammazzo il mio bambino perché da sola non ce la faccio. Lavoro in carcere, sono educatrice, lavoro con emarginati e tossicodipendenti. Prendo 950 euro al mese dei quali 600 se ne vanno per l’affitto di casa. Ero sola. Piangevo, in mezzo ad altre decine di donne lì per l’aborto. Il ginecologo mi ha visitata, mi ha fatto l’ecografia, mi ha fatto firmare il consenso all’anestesia. Nessuno mi chiedeva niente. Mi sono rivestita e sono uscita con la mia cartella in mano». L’interruzione era stata fissata per il 30 novembre. «Esco e nel corridoio mi rincorre l’ostetrica. Mi dice: posso darti del tu? Continui a piangere… sei sicura di quello che stai facendo? Poi mi mette in mano l’indirizzo del Cav, dicendomi di andare a parlare con loro. Esco dal Buzzi e mi precipito qua in Mangiagalli. Mi hanno offerto 320 euro al mese più tutto quello che mi servirà fino a che il mio Nicolas o William avrà un anno». Nicolas o William nascerà a luglio. Nel frattempo anche il compagno è tornato. «Qualcuno pensa che aiutare una donna fino a che il bambino ha un anno non risolve nulla» spiega Paola Bonzi. «Non è così. Io che ho sperimentato la fragilità della donna incinta so che i mesi più difficili sono quelli con il pancione e il primo anno di vita del bimbo. Quando il proprio figlio si regge sulle sue gambe, comincia a camminare, può andare al nido, anche la mamma è pronta per un lavoro e ha le energie per farlo». marisa «L’appuntamento mancato» Alessia dice «Ponto...» e con la manina alza il telefono. Conosce bene questa bella stanza rischiarata dal sole al terzo piano della Mangiagalli. Molte volte ha accompagnato la mamma ai colloqui dopo la sua nascita. Il 25 settembre scorso ha compiuto un anno. Ma sua madre, che preferisce l’anonimato e che chiameremo Marisa, al Cav continua a tornare. «Senza di loro Alessia non sarebbe nata. Ho 31 anni, non ho un compagno e neppure i genitori. Sono sola. Lavoravo in un bar, aprivo alle 5.30 tutte le mattine. Ho dovuto lasciare perché era troppo pesante, e dopo un po’ mi sono ritrovata incinta». Marisa, saputo di aspettare un bambino, aveva preso appuntamento all’ospedale San Paolo per l’interruzione volontaria. Ed è stato qui che la dottoressa che l’ha visitata le ha detto che le donne avevano diritto a un colloquio di riflessione prima dell’operazione. «Mi diede l’indirizzo del Cav, sono venuta qua e all’appuntamento per l’aborto non ci sono mai andata. Mi hanno sostenuto sia moralmente sia a livello pratico. Mi hanno fissato anche gli esami di routine durante la gravidanza. Mi hanno aiutato a trovare un asilo nido per Alessia. Adesso ho un lavoro. Magari non è ancora quello che vorrei fare, ma alle 3 del pomeriggio finisco e il resto della giornata lo passo con la mia bambina». cristina bellecio «Andrò in ospedale ma per partorire» «Quando sono rimasta incinta cercavo solo un medico. Non sapevo dove andare e non avevo i soldi per permettermi il ginecologo privato». Cristina arriva dalla Romania. in Italia da quattro anni e abita con il marito in un piccolo bilocale dalle parti di viale Jenner a Milano. La sua storia è fatta di lavori precari nelle lavanderie e di problemi economici. Ma è fatta anche dell’incontro con il Cav. Si è presentata due anni fa, quando era incinta del suo primo bambino, Marco. «Non ho chiesto niente» ricorda «mi hanno dato tutto. Ogni volta che ho avuto bisogno loro mi hanno dato: pannolini, passeggino, lettino. Quando smetto di usare qualcosa lo riporto. Mi fa piacere pensare che queste cose possano aiutare a far nascere altri bambini». Fra qualche mese Marco avrà un fratellino. «Quando sono rimasta incinta la seconda volta non ho più pensato ad abortire. La soluzione la troviamo. E sta andando proprio così. Mio marito ha trovato un lavoro. Io sto frequentando un corso di socio-operatore sanitario». Nascerà il 10 aprile. Quel giorno Cristina andrà in sala operatoria, ma sarà per un taglio cesareo. LUDOVICA DE LUCIA