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 2008  marzo 06 Giovedì calendario

Convivere con Marco. Corriere della Sera 6 marzo 2008. «A forza di cavalcare la tigre degli scioperi della fame», scrisse un giorno Leonardo Sciascia che gli voleva bene, «è arrivato al punto che o ammazza la tigre e se la mangia, o scende e si fa mangiare»

Convivere con Marco. Corriere della Sera 6 marzo 2008. «A forza di cavalcare la tigre degli scioperi della fame», scrisse un giorno Leonardo Sciascia che gli voleva bene, «è arrivato al punto che o ammazza la tigre e se la mangia, o scende e si fa mangiare». Non fece né l’uno, né l’altro. Così ieri, 15 anni dopo avere annunciato il suo ritiro («Metto il bavaglio alla mia vita») Marco Pannella è tornato a dare battaglia a modo suo. Quando cominciò con gli scioperi della fame? Non lo ricorda manco lui, ride: «Sarà stato nel ’700, prima della rivoluzione francese...». Pare però sia stato nel 1961, a Parigi, contro l’occupazione francese in Algeria. Un esordio fuori casa cui sarebbe seguito anni dopo il primo sciopero della fame domestico: contro l’invasione della Cecoslovacchia. Da allora, non ha smesso più. E ha digiunato per il divorzio e per Valpreda, per gli spazi alla Rai e contro la fame nel mondo, per il «visto» negato dai sovietici ai radicali russi e per l’indipendenza della Bosnia, per Radio Radicale e per l’indultino e perfino contro la naja in Spagna. E insomma tante ma tante di quelle volte che all’ennesima puntata Indro Montanelli, certo che quella forma di lotta avesse stufato non solo lui ma anche gli italiani, sbuffò: «A questo punto o Pannella muore, o è un politico morto». Macché: vivo e vegeto. E più combattivo che mai nonostante i 78 anni, quattro by-pass, un fisico da rugbista sottoposto a una vita forsennata e milioni di sigarette fumate così smodatamente che Raffaele Costa sbottò: «Se fossi io ministro dell’Interno lo farei arrestare subito per abuso di Gauloises». Mai stato facile, vivere vicino a Pannella. Non lo è stato per la compagna, costretta a vivere in una casa satura di fumo quanto un garage di camion bulgari senza marmitta. Non lo è stato per gli amici, piegati ai suoi orari da vitalista insonne: «Capita che faccio le tre, le quattro, le cinque di mattina... Però alle sette e mezzo la rassegna stampa non me la perdo mai. Ogni tanto, raramente, mi faccio quindici ore di sonno di fila. Ma me la cavo come i gatti: dormo in ogni momento buono. Sono in macchina, chiudo gli occhi e dormo. Poso la testa sulla scrivania e dormo». Non lo è stato per Emma Bonino, che ha accettato spesso di stare un passo indietro per affetto e riconoscenza: «Senza di lui oggi farei l’insegnante a Codogno. (...) Con lui ho un rapporto difficilissimo ma è un’assicurazione contro la mediocrità ». Non lo è stato per tutti i giovani che ha via via installato alla guida del partito e via via divorato con la sua personalità proporzionale alla stazza: da Giuseppe Rippa a Jean Fabre, da Giovanni Negri a Daniele Capezzone. Per non dire di Rutelli col quale i rapporti si guastarono al punto che l’anziano patriarca radicale prese a chiamare Francesco e la moglie Barbara col nomignolo «i Ciano », come Galeazzo ed Edda: «Ha fatto la comunione in tutte le parrocchie di Roma! Se mi chiama al telefono con voce flautata, però, gli rispondo: "’A Greta Garbo!"». Ma il rapporto è stato spesso difficile soprattutto con gli alleati. Che alle prese con le sue provocazioni hanno reagito con un impasto di ammirazione, imbarazzo e diffidenza. Il fatto è che lui, Marco, ha un’opinione di sé piuttosto buona: «Ho previsto tutto con un anticipo di decenni. Nessuno ha avuto orecchi. Talvolta l’intelligenza diventa strazio». Rocciosamente convinto delle proprie opinioni, si compiace di definirsi «pazzo di ragionevolezza» e giura, alla faccia di quanti lo bollano come un incontinente logorroico, che in tutta la sua vita non ha «mai detto una parola superflua». Il fatto è che, come scrisse Nello Ajello con un’immagine strepitosa, «gli sta tutto stretto e si muove sempre come fosse Pavarotti obbligato a cantare in una cabina telefonica». Va da sé che, in quella cabina, gli era proprio impossibile stare con un altro Pavarotti voluminoso come Silvio Berlusconi. Se le ricorda bene, il Cavaliere, le croci e le delizie del suo rapporto con Pannella subito dopo la sua discesa in campo. Un continuo e affettuoso massaggio quotidiano che Giuliano Ferrara descriveva così: «Marco è una diva dolcemente prepotente ». E il Cavaliere riassumeva con bonaria malizia: «Mi ha scritto più lettere Marco, anche 4 al giorno, che la più cara delle mie fidanzate». Niente da fare. Troppo diversi. Finì con una lite furibonda e, racconta ne Il teatrone della politica Filippo Ceccarelli, con una incursione sotto casa di Sua Emittenza da parte di Rita Bernardini la quale, prendendo in prestito l’immaginario germanico dove il coniglio è il simbolo dei contratti stracciati, si presentò appunto vestita da roditore. Che la convivenza non sarebbe stata facile a sinistra lo dovevano ben sapere: non è proprio il tipo, Pannella, da starsene quieto quando è convinto d’aver ragione. Cosa che, tra parentesi, gli capita quasi sempre. Al di là dello scontro di oggi, è dagli anni lontani dell’Unione goliardica italiana che l’amico Marco è visto come un potenziale compagno di battaglie ma anche come una spina nel fianco per la sua cocciutaggine anticonformista e provocatoria che spaventa tanti elettori. Sul divorzio, sull’aborto, sul «Vatican Taleban»... Luciana Castellina, nei giorni del suo avvicinamento a Berlusconi, lo definì «il peggio del peggio. Un voltagabbana nato. Il peggior prodotto dell’Ancien Régime ». Massimo D’Alema lo bollò come «un guitto, un caso doloroso: beve whisky la mattina ». Lui faceva spallucce: «Sul piano personale credo che a sinistra mi vogliano addirittura bene. Mi impiccherebbero con amore». E sotto sotto, col passare degli anni, al di là degli accordi più recenti, non si è mai sgretolata quella diffidenza callosa radicata nella storia del Pci. Diffidenza disegnata in un sonetto romanesco di Maurizio Ferrara, che vedeva i radicali come «’na manica de gente assai lasciva / finocchi e vacche ignude alla Godiva» con i quali era proprio seccante fare certe battaglie insieme: «Ar vedelli smania’ come li bonzi / sor Paolo ciancicò: "Bell’allegria, / ce tocca vince pure pe’ ’sti stronzi!». Gian Antonio Stella