Corriere della Sera 1 marzo 2008, Roberta Scorranese, 1 marzo 2008
Bacon. Corriere della Sera 1 marzo 2008. Il vetro riflettente tra il quadro e l’occhio dello spettatore non è un vezzo: è una barriera
Bacon. Corriere della Sera 1 marzo 2008. Il vetro riflettente tra il quadro e l’occhio dello spettatore non è un vezzo: è una barriera. Lo sguardo mutilato di un viso senza pelle non è una provocazione: è un ostacolo. E quella di Francis Bacon non è una bellezza facile: chi visita la mostra che Palazzo Reale dedica al grande artista anglo-irlandese, si scopre sedotto e respinto, incantato e graffiato. E, come nella seduzione nulla è casuale, anche in questa antologica milanese (quasi cento opere) che anticipa il centenario della nascita del pittore, ogni dettaglio è studiato per attrarre lo spettatore in quell’inferno privatissimo che era il mondo di Bacon. «Salvo poi respingerlo – precisa il curatore Rudy Chiappini – perché lui era così: affascinava e spaventava». Così affascina, all’inizio del percorso, la ricostruzione fotografica dell’atelier londinese del-l’artista: lo studio è stato letteralmente smontato e ricostruito, nel 1998, alla Hugh Lane, la Galleria d’arte moderna di Dublino, città natale del pittore. A Palazzo Reale le foto in diapositiva proiettano sulle pareti della prima stanza quel caos dal quale nascevano le sue opere: ondeggiano giornali, bottiglie rotte, pennelli, stracci. Il calore familiare del disordine è solo apparente: quella montagna di oggetti era l’ennesima barriera che metteva tra sé e gli altri, indispensabile per la sua arte. «Lo studio ha un senso di eternità – racconta Barbara Dawson, direttrice della Hugh Lane – luogo dove l’artista ha vissuto la sospensione dalla realtà». Come un solitario eroe di Jack London, nell’intimità del caos trovava immagini: lanciava il colore sulla tela e scopriva un’emozione, accartocciava una foto ed ecco un viso deformato, come quello dello Studio per figura II, che si incontra nella terza sala, dedicata ai primi dipinti, verso la metà degli anni Quaranta. Dalla lezione surrealista prese il gusto del paradosso, da quella cubista l’ossessione per la geometria solida. «Gabbie – puntualizza Chiappini ”. In molti suoi dipinti i corpi sono iscritti in una gabbia. Il cubo che racchiude la figura del Papa, il solido che imprigiona la Duna di sabbia». Prendeva i corpi e li intrappolava, portandoli a una tensione emotiva tale che se li guardi ti sembra che stiano per urlare. Troppo facile ricondurre l’inquietudine di Bacon al rapporto difficile con l’autorità paterna (anche se essere frustato dall’inflessibile padre irlandese che ti scopre vestito da donna è tutt’altro che facile). Riduttivo assimilare l’angoscia baconiana agli orrori della guerra, che pure gli toccò vedere. La tensione che vive nel volto deformato dell’Autoritratto, nei corpi bianchi, osceni, spalancati, è la tensione di un artista «assolutamente moderno ». Bacon visse a lungo nella Berlino di George Grosz e di Otto Dix, tra le caricature dei borghesi gonfi e istupiditi dal benessere. Scoprì che le cariche emotive stravolgono i corpi, fece scelte erotiche coraggiosamente arbitrarie, imparò che la realtà è sensibile, la psicanalisi gli insegnò a leggersi. E così accartocciò le figure, scorticò i volti, come a dire che l’unica verità possibile è quella che ciascuno di noi porta sotto la pelle. Amò Velázquez: prese il Ritratto di Papa Innocenzo X e ne fece un uomo soggiogato dal proprio potere . Amò il cinema: le sue creature esibiscono una disinvolta deformità, come i mostri di Browning. Amò la fotografia: dipinse sempre attraverso il medium della foto, evitando contatti dal vivo con «l’altro», anche ritraendo gli amici (come Lucian Freud). E preferì affidarsi ad oscure e invisibili predestinazioni: «Comincio a lavorare – disse una volta, prima della morte, avvenuta nel 1992 – su quello che il caso ha lasciato per me sulla tela». Roberta Scorranese