Queer 24 febbraio 2008, Gaia Maqi Giuliani, 24 febbraio 2008
Eterosessualità oppio dei popoli. Queer 24 febbraio 2008. Un film alquanto dissacrante uscito nel 2006, un film porno per l’esattezza, aveva, fra le sue frasi più celebri, quella che recitava «l’eterosessualità è l’oppio dei popoli»
Eterosessualità oppio dei popoli. Queer 24 febbraio 2008. Un film alquanto dissacrante uscito nel 2006, un film porno per l’esattezza, aveva, fra le sue frasi più celebri, quella che recitava «l’eterosessualità è l’oppio dei popoli». Si trattava di Rasberry Reich del noto pornografo americano Bruce La Bruce. Nel contesto provocatorio di una scena di coito tra un uomo e una donna, quella frase urlata dalla protagonista aveva un preciso significato: non tanto che l’eterosessualità è in sé una menzogna, ma che il discorso pubblico sull’eterosessualità normativa, quella che impone agli uomini e alle donne precisi ruoli all’interno della coppia e della società, è un discorso ideologico. Quella frase risulta particolarmente illuminante se estrapolata e inserita nel contesto del dibattito italiano, fattosi estremamente acceso in particolare in queste ultime settimane, sul controllo che la morale di alcuni vorrebbe esercitare su tutti-e per mezzo delle leggi dello Stato, o per mezzo di una loro revisione o cancellazione. L’eterosessualità, così come la condotta sessuale in generale è materia di scelta individuale, di intima scoperta del sé e della relazione che ciascuna persona stabilisce con un’altra. Non ha nulla di ideologico in sé, ma lo acquisisce nel momento in cui diviene norma e strumento di controllo di corpi e comportamenti. Il controllo della sessualità, nodo cruciale dell’articolazione del biopotere, come Michel Foucault ha magistralmente illustrato, viene ad essere un luogo, o meglio "il" luogo non tanto di una battaglia politica - è da vedere se per esempio la legge sull’aborto potrà mai essere rivista o addirittura cancellata - ma di una battaglia culturale fondamentale. Si tratta di una battaglia che ha preso corpo in modo inequivocabile durante il dibattito già scatenatosi in precedenza attorno alla fecondazione medicalmente assistita, al riconoscimento delle coppie di fatto e attorno alla violenza sulle donne: tutti questi casi hanno sotteso una rilettura in termini restrittivi della libera scelta individuale in materia di sessualità e genitorialità e del riconoscimento pubblico di tale scelta. Esempi eclatanti di una tale lettura restrittiva sono stati, negli ultimi quattro anni, la retorica sulla fecondazione assistita come "innaturale e perversa": come se il desiderio di maternità per le persone infertili dovesse essere riconosciuto solo a patto che fossero eterosessuali, a patto di enormi sofferenze fisiche e della diminuzione del loro diritto all’autodeterminazione (ricordiamo che, stante alla legge 40, è quasi impossibile abortire una volta impiantato l’ovulo con successo); la retorica sul riconoscimento delle coppie di fatto come "negazione dei valori e degli affetti famigliari": come se le coppie di fatto fossero contraddistinte dall’assenza di valori e di amore e dunque non valevoli di riconoscimento pubblico; la retorica sulla necessità di una tutela e di un controllo "militare" contro gli stupri: come se si volesse negare la natura profondamente culturale dello stupro e della violenza contro le donne, riducendo queste ultime a mere "vittime" da proteggere contro pazzi criminali; la retorica sull’aborto: come se le donne nel loro essere "portatrici di feto" perdessero la capacità di intendere e di volere. E tutto ciò a prescindere dal fatto che il dato che emerge dalle statistiche governative dice che i matrimoni sono in calo, che la coppia "scoppia" dopo pochi anni dal matrimonio, che gli italiani e le italiane fanno altro dallo sposarsi per la maggior parte della loro vita. Non importa se le coppie gay e lesbiche sono tante, tantissime, che esse siano indice di un comportamento omosessuale "permanente" o temporaneo. E nemmeno che le violenze contro le donne avvengono in casa e che spesso trovano una cultura dell’omertà a sostenerle. Non importa il fatto che la maggior parte delle donne che abortiscono sono ragazze italiane o migranti che non possono o non sanno tutelarsi contro gravidanze indesiderate e che chiedono in extremis un aiuto allo Stato. E che il numero ancora alto di aborti tra le giovanissime indichi la vergognosa irrisorietà della diffusione della cultura contraccettiva. Non importa, dunque, che all’origine di tutti i mali ci sia la cultura dello stigma del comportamento "non conforme", dell’abbandono a sé di chi è portatore di questo stigma e della negazione della sua voce. Si continua a negare a tutti questi soggetti il pieno riconoscimento della loro capacità di intendere e volere, il diritto di condurre attivamente la propria vita sessuale e di essere riconosciuti-e in quanto agenti nel pieno svolgimento delle proprie facoltà. L’eterosessualità è l’oppio dei popoli: in un’Italia in cui ancora numerosi si registrano stupri e violenze, verbali e fisiche, in strada, in famiglia e nei luoghi di lavoro contro chi "ostenta" una sessualità non-eteronormata (non eterosessuale o semplicemente non matrimoniale), l’attacco all’autodeterminazione della sessualità e della genitorialità delle donne è un dato allarmante: se, infatti, al primo soggetto che in Italia ha iniziato il cammino per la propria emancipazione viene imposta la tutela in quanto "incapace" di scegliere da sola, come nel caso dell’aborto e della fecondazione assistita, il pericolo di un’involuzione culturale più generale è enorme. Vale ancora, in Italia, l’idea secondo cui una brava donna è una madre di famiglia: una donna che non si lamenta delle percosse, che non rifiuta la gravidanza, che rispetta il sacro vincolo del matrimonio, si astiene dalla fornicazione e non mette in crisi il compagno con strane rivendicazioni concernenti il proprio piacere. Magari non sempre nelle aule di tribunale, ma nella cultura popolare il mito della famiglia del mulino bianco stenta a morire. La battaglia culturale ingaggiata da chi riprende questo lemma, lo foraggia e lo adegua ai tempi moderni è una battaglia diretta ai giovanissimi. Non ai trentenni, non ai quarantenni: è diretta ai giovani di domani, già abituati a Platinette e alle figure eccessive del Grande Fratello. E’ un monito: ad essere come loro si perde il rapporto millenario con ciò che è più importante nella vita, la tradizione. Si possono emulare quelle "scimmie da palcoscenico", puttane e froci di cui è piena la storia: ma contro la perdita dei punti di riferimento ed i valori fondamentali che da ciò consegue, assumiamo il nostro oppio quotidiano e smettiamo di pensare a cosa potrebbe renderci felici. Creatività sessuale, libertà di scelta e di rappresentazione del sé: questi diritti fondamentali, riconosciuti sulla carta dalla maggior parte dei paesi europei, fanno di noi italiani il brutto esempio da cui emanciparsi. Il problema però non risiede solo nell’assenza di giuste leggi o nella loro mancata applicazione: ma nella doppia morale che le retoriche sopra descritte continuano a ribadire e tentano di diffondere tra giovani e giovanissimi. E’ la morale oppiacea del confessionale e del sexyshop: nasconditi dietro i vetri oscurati per non rivendicare il tuo diritto ad autodeterminarti ed autodeterminare il tuo desiderio e scappa in chiesa qualora qualcuno ti abbia visto comprare un vibratore o un paio di manette finte. Subisci la violenza e taci: se si scopre che non ti acquieta la posizione del missionario potresti trasformarti da vittima che eri a puttana. Abortisci in silenzio e nasconditi prima che puoi: non si sa mai che qualcuno ti veda e chiami la polizia. Gaia Maqi Giuliani