Liberazione 23 febbraio 2008, Pietro Ichino - Piero Sansonetti, 23 febbraio 2008
Cara sinistra. Liberazione 23 febbraio 2008. Caro Direttore, L’editoriale di Liberazione di ieri si interroga sul significato che può avere la mia candidatura nelle liste del P
Cara sinistra. Liberazione 23 febbraio 2008. Caro Direttore, L’editoriale di Liberazione di ieri si interroga sul significato che può avere la mia candidatura nelle liste del P.D., sul piano della politica del lavoro di questo partito. La risposta mi sembra ovvia: quella candidatura significa che il P.D. riconosce utili anche le mie idee e le mie proposte, insieme a quelle, pur in gran parte diverse, di tanti altri giuslavoristi e protagonisti del mondo del lavoro - lavoratori, sindacalisti, imprenditori - nel dibattito politico attraverso il quale verrà decisa e messa a punto l’azione necessaria per far funzionare meglio il nostro mercato del lavoro e il nostro sistema delle relazioni industriali. Sul come perseguire l’obiettivo fondamentale dell’aumento del tasso di occupazione, soprattutto femminile, nel P.D. c’è un consenso molto ampio, che si esprimerà in un programma elettorale molto incisivo e dettagliato. Un consenso molto ampio c’è anche su un altro obiettivo fondamentale, quello della lotta contro il regime di apartheid che caratterizza il nostro tessuto produttivo, la divisione tra lavoratori di serie A e lavoratori di serie B; qui, però, non c’è stato il tempo per condurre a sintesi idee e proposte diverse sulla strategia da adottare. C’è comunque, nel P.D., pieno consenso sulla scelta di metodo di un confronto pragmatico, aperto al confronto con le migliori esperienze europee in questo campo e al contributo che viene dalle scienze sociali, in particolare l’economia e la sociologia del lavoro. A me sembra che anche la Sinistra Arcobaleno farebbe bene ad adottare questo metodo, invece che continuare a chiudere il dibattito sul nascere con la tecnica del tabù, dando del "servo del padrone" a chi dissente dalle tesi tradizionali. Anche perché finora le tesi tradizionali non hanno dato buona prova, almeno sul piano dei risultati concreti. Nel caso specifico, io mi sono preso da Marco Rizzo quel bell’epiteto per avere posto proprio questo problema: oggi lo Statuto dei lavoratori, nella sua interezza, si applica soltanto a poco più di metà del lavoro dipendente (per la precisione: 3,6 milioni di lavoratori pubblici, più 5,8 milioni di lavoratori di aziende private sopra la soglia dei 15). Gli altri sono fuori. Per quanti anni ancora vogliamo lasciarli fuori? La maggior parte degli italiani e anche la maggior parte del nostro movimento sindacale è convinta che la pretesa di estendere meccanicamente questa legge a tutto il tessuto produttivo sia sbagliata, produrrebbe guasti enormi. Sono tutti "servi dei padroni"? Se non lo sono, porre la questione di un nuovo diritto del lavoro capace di applicarsi davvero a 18 milioni di lavoratori invece che soltanto a 9 non è irragionevole. Non parlo di importare il modello statunitense o quello australiano: parlo di un diritto del lavoro che dia a tutti i lavoratori italiani gli stessi standard di trattamento dei lavoratori del Centro e Nord-Europa, cioè gli standard che, sul piano della sicurezza e del benessere, danno i risultati migliori del mondo. Su questo terreno, in Italia, nell’ultimo quarto di secolo è cambiato pochissimo, nel bene e nel male, e solo al margine. Vogliamo discuterne senza tabù anche fuori del P.D.? O la Sinistra Arcobaleno vuole tagliarsi fuori da questo discorso? * * * Caro professor Ichino, eccome se vogliamo discutere senza tabù di queste cose. Senza tabù. Lei ci dice che è impossibile risolvere la disuguaglianza tra lavoratori protetti dall’articolo 18 e lavoratori non protetti, nel modo più semplice: e cioè estendendo a tutti l’articolo 18 (quello che non permette il licenziamento senza giusta causa). Perché - sostiene - questo produrrebbe guasti enormi. Ammetterà che se vogliamo discutere davvero non ci basta che lei dica: guasti enormi. Quali guasti? Aumento della disoccupazione? No, tutti i dati (e la sociologia del lavoro, e l’economia...) confermano che l’aumento o la diminuzione della disoccupazione non dipendono dal grado di protezione del lavoro. E allora dov’è il guasto? Forse lei pensa che l’estensione dell’articolo 18 indebolirebbe la forza delle imprese? In che modo? Aumentando i diritti e quindi il costo del lavoro? Ma lei, professore, sa benissimo che da almeno 25 anni le nostre imprese abbassano continuamente il costo del lavoro, che infatti oggi è tra i più bassi d’Europa, e però perdono lo stesso grandi quote di mercato. Allora il problema - possiamo dirlo senza essere estremisti - non è nell’esosità dei lavoratori o nei troppi diritti, ma in un capitalismo che non riesce a innovarsi e a progettare. Le va bene iniziare la discussione partendo da qui, e poi affrontando le questioni del precariato, della disoccupazione, del salario sociale eccetera eccetera? P.S. Non polemizzi con noi perché qualcuno lo ha definito un servo dei padroni. Sa benissimo, professore, che non è un linguaggio che appartiene a questo giornale. Con Stima Piero Sansonetti