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 2008  marzo 01 Sabato calendario

Ora gli speculatori si finanziano in dollari. Il Sole 24 ore 1 marzo 2008. Per anni il Giappone è stato una miniera da cui ricavare finanziamenti a basso costo e basso rischio

Ora gli speculatori si finanziano in dollari. Il Sole 24 ore 1 marzo 2008. Per anni il Giappone è stato una miniera da cui ricavare finanziamenti a basso costo e basso rischio. O, meglio, lo era lo yen grazie ai bassi tassi d’interesse del Sol Levante, che dagli anni 90 hanno galleggiato poco sopra lo zero. Questo modo di ottenere denaro, finanziandosi con una valuta a basso tasso d’interesse per investire in un’altra ad alto tasso, si chiama carry trade. Ha funzionato egregiamente, a fasi alterne, quasi fosse una marea, con lo yen (e in misura minore con il franco svizzero) per oltre un decennio. S’è quasi interrotto negli ultimi sette mesi a causa della bufera che s’è abbattuta sul credito e la volatilità dei mercati valutari. Sta ritornando adesso, rimodellato dai recenti eventi, con il dollaro come principale riferimento. Infatti la valuta americana comincia a possedere tutte le caratteristiche che rendono proficuo il carry trade: è in caduta su quasi tutte le altre e i rendimenti dei titoli del Tesoro sono tra i più bassi del pianeta, Giappone escluso. Prendiamo ad esempio quelli dei Treasury a due anni: ieri rendevano l’1,65%, contro il 6,73% dei titoli australiani, il 7,36% dei neozelandesi, il 5,03% dei norvegesi, il 4,05% dei britannici, il 3,51% dei danesi, il 3,17% di quelli euro. E per gli amanti del rischio ci sono i rendimenti ancor più allettanti dell’Ungheria (circa 9%), del Brasile (oltre il 12%) o della Turchia (16%). Supponiamo che un investitore professionista voglia finanziarsi in dollari e decida di vendere un Treasury a due anni Usa all’1,65% per comprare un equivalente titolo australiano al 6,73%. Il suo guadagno sarà del 5,08%, meno il costo del finanziamento. E se la valuta australiana dovesse apprezzarsi rispetto a quella americana ci sarebbe anche una plusvalenza sul cambio. L’importante è che il dollaro Usa non salga. Il carry trade in dollari in realtà è un déja vu: andava di moda tra il 2002 e il 2003 quando i Fed funds scesero all’1% e il Treasury a due anni toccò un minimo degno del Sol Levante all’1,07%. ritornato in auge in febbraio, al punto che uno dei motivi del crollo della valuta starebbe proprio nella vendita di titoli in dollari. Non è un caso che nell’ultimo mese la valuta americana si sia deprezzata più su quelle ad alto rendimento, come la neozelandese e l’australiana, che rispetto all’euro. Perché il carry trade possa funzionare occorre che i rendimenti dei Treasury restino bassi e che non ci siano rialzi del dollaro. Entrambi i presupposti sembrano poter durare abbastanza a lungo. Con la Fed decisa ad evitare la recessione, i tassi sono stimati in calo fino al 2% per fine anno: cosicché i rendimenti dei Treasury difficilmente possono risalire. Inoltre mancano le condizioni per un apprezzamento del dollaro: un po’ perché dovrebbero acuirsi i differenziali tra tassi Usa e quelli degli altri Paesi, un po’ perché la debolezza della valuta accentua i rischi d’inflazione, un po’ perché la crisi finanziaria ed economica sembra più virulenta negli Stati Uniti e, infine, perché l’esercizio del carry trade contribuisce a sua volta a deprimere il dollaro. Infine vi sarebbe un’altra conseguenza, se è attendibile lo studio di Howard Simons (strategist di Bianco Research), secondo il quale il Paese, la cui valuta è presa a prestito per il carry trade, vede anche la propria Borsa comportarsi peggio delle altre. Così, infatti, è stato per quella giapponese e svizzera. Lo stesso Simons, echeggiato da altri analisti, arriva addirittura a ipotizzare una condizione di semi-agonia per l’economia americana nei prossimi anni: qualcosa di simile – dice – a quanto s’è visto in Giappone dagli anni ’90 in poi, dopo lo scoppio delle bolle borsistica e immobiliare. Considerazioni più suggestive che altro. Ma ciò che più fa sorridere sono le reiterate dichiarazioni del presidente Bush (l’ultima è di due giorni fa) per «una politica a favore di un dollaro forte». Dal picco del 2001 il biglietto verde ha perso quasi il 40% rispetto all’indice delle cinque maggiori valute del mondo. Walter Riolfi