Panorama 6 marzo 2008, MANUELA GRASSI, 6 marzo 2008
Il successo sfacciato dei numeri primi. Panorama 6 marzo 2008. Alice Della Rocca detesta la scuola di sci alla quale la obbliga il padre; in una mattina di nebbia, per la vergogna di essersela fatta addosso, si nasconde, scende a valle da sola, precipita e si rompe il perone, una ferita che la segna per sempre
Il successo sfacciato dei numeri primi. Panorama 6 marzo 2008. Alice Della Rocca detesta la scuola di sci alla quale la obbliga il padre; in una mattina di nebbia, per la vergogna di essersela fatta addosso, si nasconde, scende a valle da sola, precipita e si rompe il perone, una ferita che la segna per sempre. Mattia ha una sorella gemella disabile che gli crea imbarazzo e sofferenza. Invitato con lei a una festa, la lascia nel parco ad aspettare, ma quando torna a riprenderla, è scomparsa. Non verrà mai ritrovata. Intorno ad Alice e Mattia, alle loro vite precocemente messe in scacco, è costruito La solitudine dei numeri primi (Mondadori), esordio del fisico torinese Paolo Giordano, 25 anni. Due edizioni in sole tre settimane e una calda accoglienza critica fanno del giovane autore il campione di una generazione di narratori ai quali è dedicato il nuovo numero della rivista Nuovi argomenti: «Non ancora trentenni». Ai Birilli, ristorante della zona precollinare di Torino, Giordano, ragazzo snello, biondo, di timidezza controllata, racconta il suo successo. Ci parli dei numeri primi. I numeri primi sono quelli divisibili soltanto per 1 e per se stessi. Poi ci sono i primi gemelli, coppie di numeri primi che non si toccano mai perché fra loro c’è sempre un numero pari, per esempio l’11 e il 13. Per via del titolo hanno assunto un ruolo importante, ma nel libro sono solo una metafora. I suoi «primi gemelli» sono due disastri. Alice resta storpia e la ritroviamo adolescente anoressica. Mattia, devastato dal senso di colpa, è autolesionista. Qual è il fascino della sofferenza? Non ho ancora trovato la risposta a questa domanda: penso ci sia più urgenza a raccontare il dolore. Non c’è alcuna finalità catartica, curativa, nello scriverne. Leggerne sì, anche solo rispecchiarsi in piccoli aspetti dei personaggi, allevia un po’ la solitudine. Dove nascono le sue storie? Non le ho scelte in maniera deliberata. Specialmente per quanto riguarda Mattia: l’idea di partenza era l’immagine di una bambina disabile che agitava le braccia in classe, come se volesse volare, mi era stata raccontata da un’insegnante. Ho cominciato un racconto in cui c’era il punto di vista del fratello della bambina, il fatto che l’abbandoni nel parco, e poi che si ferisca di proposito quando la va a cercare e non la trova. L’ho scritto in una sera, è stato un flusso di coscienza, una cosa che non capita quasi mai. Nei suoi adolescenti c’è molta cattiveria femminile. Vecchi ricordi? Ricordi presenti. Ho insegnato un po’ e sono sempre rimasto a contatto con quell’ambiente. Si parla tanto di bullismo, ma ci sono forme subdole di violenza che passano inosservate. La cattiveria femminile da vedere, sentire, è più tagliente, affascinante, forse perché te l’aspetti di meno. Un libro che vuol essere una lente di ingrandimento su questi fenomeni è interessante che racconti anche aspetti meno noti. La bellissima Viola Bai, una specie di Eichmann in minigonna, costringe Alice a ingoiare una caramella alla fragola strusciata sul pavimento e nel lavabo pieno di residui. Frutto della sua fantasia? Tutto vero, non l’ho vissuto, mi è stato raccontato, l’ho solo drammatizzato. Parla di due patologie, anoressia e autolesionismo. Tutti gli anfratti, le derive, gli eccessi della personalità, se visti sotto la luce giusta, sono interessanti. Le patologie dei miei personaggi non sono estreme, sono debolezze che si portano dietro fino all’età adulta. Sono quella parte di loro che non riescono a combattere, non il nucleo essenziale della loro personalità. Lei è laureato in fisica e sta facendo un dottorato sulla fisica delle particelle. Cosa farà da grande? Sono in un momento confusionale. Perché si è messo a scrivere? Per colmare il vuoto lasciato dalla musica. Ho studiato chitarra un po’ di anni, poi ho composto molta musica elettronica, ma non uscivo dalla dimensione ombelicale Che famiglia è la sua? Padre medico, madre insegnante, sorella chimico. stato un primo della classe solitario? Il fatto di essere bravo non ha compromesso la mia vita sociale. Volevo essere nel gruppo di quelli che sul pullman stanno in fondo. Il suo libro è paragonato a «Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte» di Mark Haddon. Lo leggerò. Con quali scrittori è in debito? Devo tanto ad Alicia Erian, l’ho letta appena prima di cominciare a scrivere il mio romanzo. E poi Michael Cunningham, Ian McEwan, Raymond Carver. Giganti, ma quello a cui tendevo era lì. Il suo terreno narrativo privilegiato è la famiglia? Ho scritto due racconti su altri temi. Il primo, la giornata tipo di un ricercatore vista con ironia, era nato come esercizio al corso che ho frequentato alla scuola Holden. Raffaella Lops, oggi la mia agente, mi convinse a mandarlo a Nuovi argomenti, che lo pubblicò. Il secondo si intitola La pinna caudale (è sul nuovo numero della rivista): parla del concorrente di un quiz televisivo, del contrasto tra i suoi pensieri (è stato lasciato dalla fidanzata) e l’apparenza luccicante della tv, che appiattisce tutto. MANUELA GRASSI