L’espresso 6 marzo 2008, Emiliano Fittipaldi, 6 marzo 2008
I Nuovi ricchi. L’espresso 6 marzo 2008. Al Porsche Center di Milano alla fine di agosto 2007, mentre il Paese si avviava velocemente verso una nuova stagnazione economica, si brindava a spumante e caviale
I Nuovi ricchi. L’espresso 6 marzo 2008. Al Porsche Center di Milano alla fine di agosto 2007, mentre il Paese si avviava velocemente verso una nuova stagnazione economica, si brindava a spumante e caviale. Spulciando i registri commerciali il titolare aveva scoperto che in 12 mesi ben 456 milanesi erano entrati nel concessionario e staccato assegni a cinque zeri per portarsi a casa Cayenne fiammanti, le nuove Boxster e altre fuoriserie assortite. Vendite record, mai registrate negli ultimi anni. Il profilo dei clienti è variegato: imprenditori, avvocati e commercianti vogliono il Suv e la 911 coupè, mentre designer, pubblicitari e partite Iva preferiscono nettamente Cayman e Boxster, macchine che possono costare oltre i 120 mila euro. "Le nuove professioni tirano", ammettono i responsabili, "il boom ha coinvolto anche i negozi di Padova, Treviso, Torino e Roma". Se l’Italia è in affanno e l’economia boccheggia, il declino non si comporta certo come una livella. L’inflazione rosicchia i salari di milioni di impiegati, operai e dipendenti dei ceti medio-bassi, ma lascia indifferenti categorie protette che continuano ad accumulare ricchezza. Da un lato la sindrome della ’quarta settimana’ si è via via spostata alla terza, dall’altra poche professioni anticicliche macinano più euro di prima. Fare l’identikit dei neo Paperoni non è operazione facile, visto che negli ultimi anni economisti e istituti preposti hanno analizzato soprattutto i nuovi poveri e il tramonto del ceto medio. Incrociando statistiche e dossier poco noti, però, è possibile tracciare ritratti fedeli. In primis, i ricchi nostrani hanno caratteristiche autoctone. La bolla della new economy ha spazzato via le aziende che avevano cavalcato l’onda hig tech della fine degli anni ’90, ed emuli di Bill Gates e Larry Page da noi non sono mai attecchiti. I grandi manager alla Alessandro Profumo e Sergio Marchionne si contano sulle dita di una mano, e i loro bonus, seppure sostanziosi, non sono paragonabili a quelli dei colleghi americani e inglesi. Il boom dell’immobiliare lentamente si sta sgonfiando, e i protagonisti delle pagine economiche di qualche anno fa, da Stefano Ricucci a Danilo Coppola, sono passati sulle colonne di cronaca giudiziaria. Di certo chi guadagna bene sono fabbri e idraulici, che insieme ad altri artigiani sfruttano l’assenza di concorrenza e di ricambi generazionali. E vince chi ha puntato su giochi e scommesse. In un lustro il giro d’affari è raddoppiato, a conferma della teoria che lega il boom dell’azzardo alle negative condizioni economiche di un Paese. Meno soldi si hanno, più si punta sulla dea fortuna. Ma gli italiani che si sono arricchiti davvero lavorano soprattutto nel commercio, in particolare in quello all’ingrosso e nel settore della grande distribuzione, nel mondo ovattato dei grandi studi professionali, dove primeggiano avvocati e commercialisti di Milano e Roma, e nel business inarrestabile della sanità privata. A ritmo di samba Anche nella sede di Altagamma, l’associazione delle imprese italiane che operano nella fascia più opulenta, guardano i dati dei preconsuntivi stropicciandosi gli occhi. "Non c’è niente da fare, non c’è crisi che tenga. Il lusso ha sfondato nel 2007 e ci attendiamo buone performance anche per il 2008", chiosa il segretario generale Armando Branchini, "l’Italia resta uno dei mercati migliori al mondo: i nostri clienti hanno portafogli così gonfi che dell’andamento del Pil se ne fregano. I ricchi sono sempre più ricchi, i loro conti correnti non subiscono contraccolpi come quelli dei comuni mortali". Branchini fotografa le performance di vendita di marche destinate ai benestanti: Bulgari, Bottega Veneta, Artemide, Zegna, praticamente quasi tutti i soci hanno aumentato i profitti. La gioielleria, orologi compresi, è cresciuta del 10 per cento, il design e l’arredamento del 12, persino i vini costosi, la pasta di marca e i cibi da gourmet hanno visto schizzare gli affari di 15 punti. Ovunque il mercato tricolore è in linea con l’espansione mondiale. La moda delle piscine in casa non si è fermata, e nella nautica solo le imbarcazioni più piccole non hanno trovato acquirenti: le vendite dei mega-yacht vanno a gonfie vele. Gli ultimi dati sulle immatricolazioni d’auto di gennaio descrivono meglio di un saggio universitario la nuova Italia alla brasiliana, dove la forbice tra i ceti sociali si allarga e le diseguaglianze aumentano: le utilitarie restano in vetrina, mentre le costose Mini e Smart vanno via come il pane. Automobili regalate, in genere, dai mariti delle élite alle moglie o ai rampolli. Fiat, Renault e Hyundai sono in difficoltà, mentre Ferrari, Maserati e Lamborghini mettono a segno performance a doppia cifra. Secondo il bollettino Bankitalia pubblicato qualche giorno fa, il 10 per cento delle famiglie detiene quasi la metà della ricchezza complessiva del Paese (si tratta di immobili, aziende, azioni e titoli di Stato), un fenomeno di ’concentrazione’ in netta crescita rispetto al dato 2004. Non solo. L’andamento dei redditi familiari ci mette tra le nazioni più diseguali d’Europa: disegnandole come un palazzo di dieci piani, le famiglie dell’attico e del nono piano controllano ormai oltre il 40 per cento del monte stipendi complessivo, mentre poveri e classi medio-basse devono accontentarsi del 10 per cento della torta. I super-ricchi, quelli con un reddito medio di 143 mila euro, sono pochissimi: solo il 2,2 per cento delle famiglie è iscritta al club, che ha nettamente aumentato il gap con quelli che vivono ai pianerottoli più bassi. Le differenze sono così marcate che gli esperti più attenti cominciano a raffigurare la distribuzione dell’italica ricchezza non più come una piramide dolcemente degradante, ma come un calice di vetro: nel gambo c’è la grande maggioranza della popolazione a contendersi le briciole, in alto pochi fortunati che sguazzano nello champagne. "Stiamo assistendo a una delle più grandi redistribuzioni patrimoniali degli ultimi cinquant’anni", dice Luigi Campiglio, ordinario di Politica economica alla Cattolica di Milano. "In termini reali, al netto cioè dell’inflazione, dal 2000 i dipendenti hanno visto i loro stipendi cristallizzarsi, mentre gli autonomi hanno accresciuto la capacità di spesa quasi del 14 per cento. Un incremento probabilmente sottostimato: i dati di via Nazionale non includono, ovviamente, l’evasione fiscale. I soldi veri? Li ha fatti chi opera nei settori protetti e meno esposti alla concorrenza, e chi può aumentarsi il salario da solo rialzando le tariffe di ciò che vende". Grossisti in Ferrari I commercianti sono finiti nell’occhio del ciclone già al tempo del change-over, durante il passaggio dalla lira all’euro. Il leitmotiv dell’accusa è sempre lo stesso: aver approfittato della nuova moneta per raddoppiare i prezzi dei prodotti. Se le critiche a volte sono state eccessive, secondo una tabella elaborata recentemente dalla stessa Confcommercio e confinata in una pagina interna dell’ultimo rapporto annuale, la parte di valore aggiunto dell’intera filiera alimentare finito nelle tasche dei commercianti è aumentata notevolmente. Passando dal 37 per cento del 2000 al 43 per cento del 2006. Guadagni lordi che hanno ’mangiato’ il margine di agricoltori e industriali del settore. "Bisogna però ricordarsi", ragiona il direttore dell’ufficio studi Mariano Bella, "che per calcolare quello che rimane agli esercenti è necessario sottrarre i costi per gli affitti, per l’energia e il lavoro dipendente. Senza dimenticare che i gli agricoltori godono di sussidi generosi che noi manco ci sogniamo". Secondo Campiglio i dettaglianti sono diminuiti in numero, ma la spirale dei prezzi ha incrementato di certo il loro conto in banca. Stessa sorte per quello dei grossisti di alimentari, 3.500 imprese che controllano un fatturato da 12 miliardi di euro. Questi ultimi, ben più dei produttori, hanno innovato radicalmente la loro professione, ormai più simile a quella di un trader di Borsa che a quella di un mercante. Come un pulcino delle scuole di calcio sogna di diventare Kakà, il mito di ogni grossista è Raffaello Orsero, il re delle banane scomparso due anni fa. Partendo da Albenga, vicino Savona, insieme ai fratelli è riuscito a trasformare un carretto di frutta in un colosso europeo dell’import-export da duemila dipendenti e due miliardi di fatturato, grazie a contratti esclusivi con multinazionali come la Del Monte. Andrea Belletti, presidente della piccola Eurofrut, racconta di una selezione pazzesca e delle strategie per restare protagonisti sul mercato. I guadagni migliori sono appannaggio di chi strappa contratti con i big della grande distribuzione, di chi accorcia la filiera e riduce i costi. "Ormai siamo noi a dire ai produttori cosa piantare, bisogna sapere in anticipo che tipo di frutta o di verdura andrà di moda sui banchi dei mercatini rionali". I più bravi riescono a guadagnare decine di milioni comprando all’estero, investendo sull’informatica, persino modificando la forma di un vegetale: a Napoli si producevano negli anni ’90 peperoni lunghi 40 centimetri, pesanti e difficili da trasportare. Oggi sono più corti e ben squadrati, in modo da movimentarli a minor prezzo. I mercati di interesse nazionale sono 150 e controllano il 65-70 per cento di tutto quello che finisce sulle tavole degli italiani. Le storie di successo prendono vita nei grandi centri di Torino, Padova, Verona e Venezia. "Da lì riusciamo ad aggredire anche i mercati della Russia e dell’Ungheria, inutile negare che ci sono aziende che hanno ottimi ritorni. Anche se la categoria ha perso per strada migliaia di colleghi", racconta il presidente di Fedagro Ottavio Guala. I superstiti, però, se la passano bene, meglio ancora quelli specializzati in prodotti surgelati: al supermarket costano molto, ma pare che gli italiani non riescano a farne a meno. Avvocati anticrisi In America è diventato un modo di dire. ’The winner-take-all’, il vincitore prende tutto. "In realtà è il nome di una teoria economica, di un fenomeno che sta prendendo forma anche in Italia. Per capire dove finisce il denaro non basta analizzare i settori più redditizi: in quegli stessi ambiti, dall’industria ai servizi, dal commercio fino al mondo della finanza, i più forti conquistano tutto il bottino. Lasciando ai concorrenti poco o nulla": Campiglio è categorico, e descrive un sistema dove il guadagno finisce appannaggio di un’élite ristretta che fa saltare il banco. Un’economia ’delle superstar’, che grazie a un darwinismo sociale spinto porta spesso a un vero e proprio monopolio della ricchezza. Tra le professioni che sono riuscite a beneficiare del quadro declinante dell’economia reale un posto d’onore lo occupano gli avvocati d’affari. In Italia gli yuppie alla Jerome Kerviel, il trader che ha rubato 5 miliardi alla francese SocGen, guadagnano poco rispetto ai colleghi della City e di Parigi. Il 2007 è stato per Piazza Affari un anno negativo, e la crisi innescata dai mutui subprime ha pesato anche sull’inizio del 2008. Gli alter ego tricolori dei broker di Wall Street sono invece i giovani professionisti del legale e del tributario, che gestendo Opa, fusioni, crisi industriali e quotazioni in Borsa muovono miliardi e guadagnano milioni. Nel firmamento delle law firm ci sono gli studi Gianni-Origoni-Grippo, con sedi a Roma, Milano, Bruxelles, Londra e New York, il rivale Bonelli-Erede-Pappalardo e lo studio Chiomenti di Michele Carpinelli, professionisti che hanno tenuto botta all’arrivo dei competitor anglosassoni, Freshfields e Clifford Chance in testa. Strutture con centinaia di dipendenti, che fatturano cifre da capogiro (nell’ordine di decine di milioni di euro) e che negli anni hanno schiacciato gli studi più piccoli estromettendoli dalla partita delle grandi transazioni economiche. All’interno la gerarchia tra soci e semplici stipendiati è ferrea, ma chi riesce a portare grossi clienti può scalare la piramide, partecipare al banchetto di fine anno intascando bonus da nababbi. Ma anche i giovani dipendenti portano a casa, in media, stipendi che possono sfiorare i 70-80 mila euro: sono i rampanti che frequentano Corso Como e sfoggiano vestiti e macchine di marca davanti al Le Banque, la discoteca più chic di Milano. Prenotare i tavolini nel locale, però, non è appannaggio di tutti. Perché la categoria forense, in complesso, sta peggiorando il proprio tenore di vita. Le prestigiose consulenze sono riservati a pochissimi, la massa vive di infortunistica e cause civili da dividere con decine di migliaia di colleghi. Soprattutto nel Mezzogiorno l’avvocato, chiosano i ricercatori del Censis in un report di qualche mese fa, funziona ancora come ammortizzatore sociale, "un polmone d’assorbimento di disoccupati". Il reddito medio era di 46 mila euro nel 2002 - fatturato dichiarato dalla Cassa di previdenza - e in un lustro è rimasto praticamente identico. "I salari sembrano un ottovolante, e seguono le curve dell’età. Le enormi differenze si evidenziano plasticamente durante la pausa pranzo", dice uno dei più grossi legali italiani, "i giovani mangiano il panino o vanno in mensa, i vecchi vanno al sushi bar". In ottima salute Gli altri neo-ricchi che possono fare spallucce davanti alla crescita zero sono coloro che hanno fatto fortuna con la sanità privata. Basta sfogliare i giornali economici: i protagonisti del business delle cliniche hanno scalzato di fatto i signori (decaduti) del Real Estate. Giampaolo Angelucci, titolare del Gruppo Tosinvest, non sembra però intenzionato a ballare una sola stagione come Ricucci: insieme ai fratelli controlla decine di cliniche e ospedali a Roma, in Lombardia e Puglia, e non disdegna avventure mirate nel campo editoriale e in quello finanziario. Proprietario di ’Libero’ e del ’Riformista’, ha da poco tentato di comprare il pacchetto di maggioranza dell’’Unità’, mentre la vendita della quota di Capitalia ha fruttato una plusvalenza-monstre da 300 milioni di euro. Altro ras del settore è Giuseppe Rotelli, che in pochi lustri è diventato leader nazionale grazie all’impero costruito a Milano. Acquistando in blocco le cliniche di Antonino Ligresti ha sfruttato al meglio la rivoluzione imposta dal governatore Roberto Formigoni, che nel 1999 ha rotto il monopolio del pubblico e dato il via all’età dell’oro per gli industriali della salute: anche a Rotelli piace la carta stampata, e ha una partecipazione ’potenziale’ del 10 per cento dentro Rcs, il gruppo che controlla il ’Corriere della Sera’. Ma Angelucci, Rotelli e Gianfelice Rocca, vicepresidente di Confindustria e presidente di Humanitas, sono solo la punta dell’iceberg: nel 2008 il giro d’affari totale si avvia a superare gli 8 miliardi di euro, con un tasso di produttività per occupato che supera - come ha scritto ’Il Sole 24 Ore’ - del 6,4 per cento la media nazionale. "Se io e lei ci volessimo mettere in società per comprare un immobile e farci una clinica", dice Giuseppe Scrofina, presidente di Federsalute, "le assicuro che saremmo in buona compagnia. Molti hanno fiutato l’affare, c’è la fila". Per Unioncamere dal 2002 al 2007 sono nate 5.067 nuove imprese sanitarie, con un aumento del 22 per cento. Sono cliniche, ambulatori, laboratori di analisi, centri per l’assistenza agli anziani, ma anche società di ambulanze private e produttori di dispositivi medici. Difficile trovare piccolissimi imprenditori: le strutture e i macchinari sono costosi, gli investimenti importanti. All’origine del boom non c’è solo l’espansione nazionale del modello Formigoni, che ha dirottato sul privato parte importante della spesa sanitaria pubblica, ma anche fattori congiunturali refrattari a qualsiasi stagnazione economica: dall’aspettativa di vita in aumento, alla cultura dilagante del benessere, alla fine delle famiglie allargate. "Gli ospizi sono l’alternativa alla badante", spiega Scrofina, che mette l’accento anche sulla crisi del servizio pubblico. Il margine di guadagno è alto anche nelle attività di riabilitazione e nella lungodegenza, dove il peso del privato (dati Cergas-Bocconi) è elevatissimo, mentre l’out-of-pocket ha fatto crescere la spesa pro capite soprattutto in Lombardia, Veneto, Lazio e Campania. Anche qui i più forti stanno però cominciando a fare la parte del leone, e le operazioni di concentrazione rischiano di lasciare il mercato appannaggio di pochi big player. Che diventeranno, ovviamente, sempre più ricchi. Emiliano Fittipaldi