L’espresso 6 marzo 2008, Giorgio Ruffolo, 6 marzo 2008
Schiavi dell’immortalità. L’espresso 6 marzo 2008. La vita eterna è un’utopia che accompagna da sempre l’umanità
Schiavi dell’immortalità. L’espresso 6 marzo 2008. La vita eterna è un’utopia che accompagna da sempre l’umanità. Ma oggi, grazie alle tecnologie che clonano corpo e cervello, il mito sta diventando realtà. E già si configurano scenari inquietanti La macchina pensante di Daniel Hillis, la Connection Machine, praticamente una serie di computer interconnessi, è il marchingegno più complicato che gli uomini abbiano ideato e realizzato. Ed è il più somigliante al cervello umano, anche se ancora alla (molto) lontana. Hills è uno di quegli scienziati pazzi che si occupano di intelligenza artificiale. E che hanno reintrodotto, scandalosamente, nei severi luoghi della scienza il mito della immortalità. Ricordate il giardino dell’Eden? Lì non c’era un solo albero fatale, quello del male e del bene. C’era anche quello dell’immortalità, non se ne parla spesso. E i maligni sospettano che l’ira di Dio dipendesse dalla possibilità che il serpente inducesse la dolce Eva a far gustare all’intontito Adamo anche quel frutto, dopo di che i due sconsiderati sarebbero diventati suoi eguali. Le cose andarono diversamente. E i disobbedienti ubbidirono all’altro comandamento del Signore: di dominare la Terra con tutte le sue creature. Fin troppo. Ma nell’inconscio della loro progenie quell’occasione perduta, dell’immortalità, si impresse tenacissima, come pretesa rinviata a un futuro, apocalittico o fantascientifico. Quel mito accompagna tutta la storia dell’uomo, prima nelle grandi narrazioni della religione, poi nelle utopie della scienza. Nelle grandi narrazioni religiose l’immortalità è il dono che Dio riconosce ai giusti, ma attraverso una età fatale di tempeste apocalittiche. quindi inscritta nel futuro, talvolta in un futuro imminente E la narrazione del futuro è una visione profetica, concessa a futurologi particolarmente illuminati. La narrazione più famosa è quella dell’Apocalisse di Giovanni. In un suo saggio Emmanuel Mounier ne rileva una impressionante analogia con un reportage sullo scoppio della bomba atomica: "E come una gran montagna fiammeggiante di fuoco fu gettata nel mare" (Apocalisse) e "una luce sfolgorante si alzò sul mare" (corrispondenza da ’La Presse’). Come dice Nicola Abbagnano l’apocalisse, una parola che significava ’rivelazione’, è diventata sinonimo di ’catastrofe’. Un’altra serie di rivelazioni catastrofiche del futuro segnò l’anno Mille e i suoi dintorni. Tra le tante predizioni dell’epoca si distingue quella di Raul il Glabro, monaco ribelle, visitato dal diavolo sotto forma di un orrendo nano che gli svela un futuro tremendo. Ma più che del futuro quella di Raul è l’apocalisse del suo presente. Pestilenze, terremoti, inondazioni, fame e cannibalismo. Si capisce: l’Europa subisce in quella fase la triplice invasione dei normanni, degli arabi, degli ungari (gli ’orchi’). spopolata, sterile. Pure, quell’anno Mille è una cesura storica. Se ne accorge Raul e dalla sua penna nasce un’immagine affascinante: "e la terra si coprì di un bianco manto di chiese". Terzo scenario futurista, quello di Nostradamus. un medico profeta. Arricchitosi grazie a un secondo matrimonio si ritira tra specchi magici e alambicchi a scrivere le sue Centurie, che percorrono la storia umana dal 1525 al 3797 anno del Giudizio Universale. Sbaglia l’anno del secondo avvento di Cristo, il 1999. Invece azzecca la Rivoluzione francese, la Prima e la Seconda guerra mondiale, Napoleone e Hitler (ma non Stalin). Azzecca soprattutto la data della sua morte, il 2 luglio del 1566 alle tre del mattino. A partire dal 1600-1700, poi, la profezia religiosa è sostituita dalla predizione laica, che vuole essere scientificamente fondata e che porta diritta agli scenari novecenteschi e che sono di due specie opposte: cupi e apologetici. Alla prima categoria appartengono le riflessioni e le previsioni ispirate a una critica del clima compiaciuto e ottimistico dell’inizio del secolo. Cominciato sotto il segno delle magnifiche sorti e progressive il ’900 ripiega entro visioni pessimistiche e nichilistiche del futuro: una colonna narrativa che accompagna con coerente dissonanza gli eventi catastrofici del più sanguinario secolo della storia. Da sinistra e da destra (Adorno e Heidegger) si scatena l’offensiva contro la Tecnica. Un compendio di questo pensiero è costituito dal denso libro di Umberto Galimberti (’Psiche e Techne’; Feltrinelli). Ma nella seconda metà del secolo il clima culturale cambia. E il pensiero rivolto al futuro riflette l’evoluzione della realtà presente, contraddistinta, nei decenni del dopoguerra, dalla crescita impetuosa e imprevista dell’economia. Un punto di riferimento è Karl Popper. Questo ’stato d’animo’ apologetico anima le visioni di futurologi entusiasti, come Herman Kahn e Alvin Toffler. I progressi per molti aspetti prodigiosi della scienza e della tecnica, congiunti con le grandi disponibilità offerte dalla crescita economica, risuscitano i miti dell’onnipotenza umana, fino a quello, tracotante, dell’immortalità. Quest’ultimo risorge non come sogno e narrazione trascendente, ma come ipotesi concretamente prospettabile. Un’importante svolta nella letteratura futuristica è quella rappresentata dal pensiero di Bertrand de Jouvenel, grande intellettuale filosofo, storico, economista, con una vita accidentata: figlio di un intellettuale prestigioso della cui moglie - la scrittrice Colette - diviene l’amante, de Jouvenel rifiuta ogni scenario predittivo, sostituendo ai futuri previsti i futuri possibili: i ’futuribles’. La differenza è decisiva. Il primo è un concetto ’passivo’. Ci si limita ad anticipare ciò che ci capiterà addosso, che ci piaccia o no. Nel secondo si tratta di scegliere uno tra i futuri ragionevolmente possibili. Ora, il più sconcertante dei futuribili è quello che offriva l’immortalità. Il secondo albero dell’Eden è dunque a portata di mano? Qualunque sia la risposta è certo che questa volta, non sarebbe il serpente a offrirlo: non un animale creato da Dio, ma un ordigno costruito dall’uomo, che si chiama computer. Facciamo un passo indietro. O piuttosto, in avanti. Le specie nascono evolvono si estinguono seguendo la legge della selezione naturale. Questa affermazione è accolta dalla cultura scientifica del nostro tempo, cui si contrappone il creazionismo. La selezione naturale è la risposta scientifica alle due versioni opposte e ragionevolmente inaccettabili del progetto divino e del caso. Essa si basa sull’ipotesi di un’autorganizzazione della materia. Anche questa ipotesi ha i suoi problemi, che Darwin stesso riconobbe: ma qui non è il caso di approfondire. Anche la specie umana si è evoluta per la maggior parte dei suoi due o tre milioni di anni di esistenza grazie al meccanismo della selezione naturale: in due modi, per gruppi isolati o per mutazioni generali. Diverse specie di uomini si sono succedute. L’homo sapiens sapiens è solo l’ultima, le altre si sono estinte Ma da ormai 200 mila anni il processo della selezione naturale sembra abbia cessato di funzionare per l’uomo. Bisogna dire sembra, perché quel processo ha tempi lunghissimi e fasi discontinue. Sembra inoltre che dal Paleolitico a oggi si siano verificati, dal punto di vista naturale, fenomeni di declino, come, per esempio, la riduzione delle dimensioni del cervello dal massimo di 1.500 a 1.400 centimetri cubici, con tendenza a ridursi ancora. Il che però non significa che stiamo diventando più stupidi. Anzi, l’intelligenza non ha fatto che progredire, grazie all’intensità delle funzioni cerebrali, e la specie umana, sopravanzando nettamente le tendenze naturali al declino, è prodigiosamente cresciuta fino a diventare capace, oggi, di autosvilupparsi in due modi: agendo sui propri geni o creando macchine pensanti al suo servizio. E in un terzo modo ancor più stupefacente: realizzando combinazioni tra organismi biologici e macchine: i cyborg. Il futuro si popola quindi oggi, per l’umanità, di prospettive sconvolgenti e inquietanti. Da una parte, una manipolazione dei geni che consenta la clonazione (fotocopia) di una specie ’corretta’, capace di resistere per tempi indeterminati all’usura biologica e di sviluppare le performance fisiche (forza, velocità, vista) dell’organismo umano: sollevare macigni, correre le sette leghe. Dall’altra, la creazione di una intelligenza artificiale del tutto sottratta all’usura naturale e capace, in una prospettiva non remota, di moltiplicare per cento, per mille, per un milione la potenza di informazione e di calcolo. Al limite di questa scalata al cielo, riemerge il possesso del frutto proibito dell’Eden: la conquista dell’immortalità, in una forma propriamente disumana. stata definita ’mind uploading’ e consiste nella scissione tra la mente e il corpo. La mente diventa un software superintelligente che gira su un potente elaboratore. Nella mente sarebbero trasferiti, dopo essere debitamente codificati, i miliardi di miliardi di connessioni tra i neuroni del nostro cervello: il cervello al carbonio, soggetto alla degradazione biologica sarebbe ’trasferito’ in un cervello al silicio, praticamente indistruttibile. Immortale. Il corpo sarebbe abbandonato a se stesso? Sì, a meno che il progresso sul primo fronte, delle capacità somatiche, non riuscisse a tenere il tempo dell’avanzata sul secondo fronte, quello dell’intelligenza artificiale. In quel caso, la mente, ricongiungendosi con il nuovo corpo, non perderebbe quelle facoltà non indifferenti alla felicità umana, come mangiare e fare l’amore, barattando l’immortalità del sapere con la perdita del piacere. Insomma, l’immortalità è più di un’utopia. un rischio tremendo. Pensiamo soltanto alla demografia. L’uomo, raggiungendo l’immortalità dei batteri, che non muoiono ma si dividono, prolifererebbe fino a dover popolare la galassia. E anche qui non mancano le predizioni del futuro. Come quelle dell’astrofisico Nikolai Kardashev, che ha collegato la possibilità umana di violare le frontiere dello spazio grazie a tre successivi balzi nell’accesso a energie sempre più potenti. Infatti, maggiore è il consumo di energia di una civiltà tecnologica, più vasti sono gli spazi che può occupare: il sistema solare?, la galassia?, l’universo? Di fronte a queste vertiginose prospettive non ha senso chiedersi se sono credibili, ma, propriamente, se hanno un senso. A me pare che il loro senso stia nella formidabile potenza che l’intelligenza umana ha sviluppato nel volgere della sua più recente storia; e nella responsabilità enorme che ha posto sulle nostre spalle. Poiché il futuro, che propriamente non esiste, sarà, man mano che esisterà, sempre meno determinato dalle nostre previsioni e sempre più dalle nostre decisioni. In un piccolo libro ispirato (’Storia e destino’, Einaudi), lo storico Aldo Schiavone individua proprio nella storia il nostro destino. la nostra storia che ci ha proiettato "oltre la specie" in una dimensione non naturale ma culturale. nella nostra storia che si è sviluppata la nostra scienza che ci consente di concepire persino il compimento dello scandalo della Genesi: l’immortalità. Che non è immanenza, ma trascendenza. Non compimento ma ardimento. In tal senso la scienza è il più alto sentimento dell’uomo, e appaiono presuntuose e ridicole le prediche tecnofobe della filosofia neomistica. Il progresso della potenza (quello che secondo la legge Moore, dal nome di Gordon Moore, il fondatore dell’Intel, raddoppia ogni 18 mesi) trova un limite soltanto nell’immaginazione, che ha anticipato quasi tutte le attuali profezie della scienza: dal film ’Metropolis’ di Fritz Lang del 1926 alla trilogia di Isaac Asimov del 1950, al ’Terminator’ di James Cameron (1984) all’’Intelligenza artificiale’ (2002) di Steven Spielberg. Si pone allora la domanda: il capolavoro di Spielberg è fantasia o rappresenta anche un possibile futuro: un futuribile? In un libro del 1982, il ’Telaio incantato’ (Mondadori), Robert Jastrow della Columbia University, termina il suo testo, che tratta della immortale intelligenza al silicio, con un’immagine degna del più affascinante racconto di fantascienza: "I viandanti si spostano di stella in stella, a caccia di vita intelligente. Ogni traversata richiede un milione di anni. Ma le menti racchiuse nei banchi di memorie vivono in eterno. Nel loro senso dilatato del tempo un milione di anni è come un giorno. La loro ricerca è stata finora infruttuosa poiché le stelle vicine erano giovani e la vita intelligente non vi aveva fatto ancora la sua comparsa. Ora le antenne della nave stellare hanno fiutato l’aroma della radiazione elettromagnetica di una stella bianco giallastra distante quaranta anni luce. Questa stella deve essere abitata da vita intelligente. I viandanti fanno rotta sul Sole". Giorgio Ruffolo