Avvenire 1 marzo 2008, CAMILLE EID, 1 marzo 2008
Così l’islam radicale «marcia» sull’Africa. Avvenire 1 marzo 2008. Nei giorni scorsi il presidente americano George Bush si è congedato dall’Africa, un continente sempre più al centro degli interessi statunitensi
Così l’islam radicale «marcia» sull’Africa. Avvenire 1 marzo 2008. Nei giorni scorsi il presidente americano George Bush si è congedato dall’Africa, un continente sempre più al centro degli interessi statunitensi. Interessi legati all’economia, dato che nel 2015 la quota subsahariana delle importazioni di petrolio americane raggiungerà il 25 per cento, ma anche alla sicurezza. Gli Usa temono, infatti, la costituzione di un grande ’arco integralista’ che parte dal Sudan e, attraverso gli Stati musulmani della Nigeria e la via tradizionale delle carovane, raggiunge la costa atlantica della Mauritania. L’Africa subsaharina come nuovo terreno di jihad internazionale? Nulla di strano, se si pensa ai motivi che stanno dietro il recente annullamento dell’ultimo rally Parigi-Dakar. Il Sahel presenta, in fin dei conti, molteplici vantaggi per gli strateghi di al-Qaeda: la zona è immensa, poco popolata, con frontiere difficili da controllare, conflitti che perdurano da anni, un flusso di immigrati e un traffico illecito che permette ai terroristi di approvvigionarsi facilmente. Ancor prima del’11 settembre, nel maggio del 2001, lo yemenita Imad Alwan era sbarcato in Algeria al termine di un lungo viaggio che lo aveva portato prima a Mogadiscio, poi a Khartoum e Niamey. Al-Qaeda lo aveva incaricato di creare una zona operativa nelle regioni settentrionali del Mali e del Niger. La missione si rivelò assai ostica. Le popolazioni locali (kulak, ifora, tuareg, peul) sono infatti refrattarie all’estremismo e le solidarietà etniche risultano più importanti della comune appartenenza all’islam. Il progetto è stato successivamente ripreso dal Gspc algerino, che si è ritagliato un santuario sicuro a Kidal, nel nord del Mali, dove vengono accolti ’predicatori’ pachistani e afghani. Oggi, il vento radicale soffia su molte altre parti del Paese, dall’antica roccaforte della ribellione tuareg, l’Adrar degli Ifora, a Tessalit e al Khalil. Il finanziamento saudita di nuove moschee, di un centro culturale islamico e di diversi ponti in questa nazione musulmana non è certo una novità, ma le foto di Ossama Benladen esibite nelle botteghe del mercato centrale di Bamako costituiscono un segnale inquietante in un Paese che non era tentato dalle seduzioni jihadiste. Le radio locali dirette da wahhabiti invadono a poco a poco l’etere, contrastando la predicazione degli imam più moderati. La diffusione delle scuole coraniche appare ancor più allarmante. Per una semplice ragione: sfuggono al controllo dello Stato e del sistema di istruzione ufficiale. Nella sola capitale se ne contano più di tremila, che accolgono il 40 per cento dei bambini in età scolastica. Nel vicino Niger, l’integralismo non ha ancora attecchito in campo politico (i partiti di ispirazione islamica sono vietati), ma le associazioni del wahhabismo ’puro e duro’ guadagnano terreno. Dalle madrassa in cui si insegnano l’arabo e le virtù del rigorismo islamico fino ai mass media. I fondamentalisti controllano la radio popolare islamica Bonferey FM, «la voce che porta lontano», e il giornale as-Salam. Conscio del pericolo che rappresentano alcuni imam, il governo di Niamey ha allontanato negli anni scorsi i predicatori stranieri più ’arrabbiati’, ma gli islamici sostituiscono spesso le istituzioni statali nell’assistenza alla popolazione povera e il contagio della sharia si sparge nelle parti meridionali del Paese, confinanti con la Nigeria. Nel nord del Benin, osserva l’antropologa francese Denise Brégand, il radicalismo avanza nelle regioni in cui «regna la disoccupazione e dove ottenere una borsa di studio nel Kuwait o in Arabia Saudita è diventato un mezzo per assicurarsi un avvenire e un lavoro nelle ong arabe». Più critica la situazione in Mauritania. Le voci che indicano il Paese come probabile sede dell’Africom, il comando regionale americano per l’Africa, sarebbero all’origine della recrudescenza degli attentati, da quello contro i turisti francesi ad Aleg, 250 chilometri a sud-est di Nouakchott del 24 dicembre, all’assassinio, tre giorni dopo, di tre soldati del presidio di al-Ghallawiya, fino all’attentato contro l’ambasciata israeliana del primo febbraio scorso. Ma non tutti gli osservatori danno una lettura pessimistica della moltiplicazione di moschee e ong islamiche in Africa. Marc-Antoine Pérouse de Montclos, dell’Institut de recherche pour le développement, afferma che questa tendenza potrebbe essere letta come un tentativo di musulmani di organizzarsi per difendere meglio i propri diritti. De Monclos parla anche di un «opportunismo» di alcuni gruppi fondamentalisti africani. Il riferimento ideale ad al-Qaeda, secondo lui, sarebbe un modo per dare un forte impatto alla loro contestazione. E cita i casi di conversione all’islam radicale di alcuni leader o sètte africani, come quella di Mujahid Dabuko Asar, capo di un gruppo del Delta del Niger, o la setta Mumgiki del Kenya, che ricordano le gang sudafricane degli anni ”40, le quali si facevano chiamare «Berliners» e «Japanese» senza nulla a che fare con i Paesi dell’Asse. Mali, Niger, Nigeria e Mauritania sono i Paesi dove maggiore è la penetrazione delle idee estremistiche, anche nei mass media, che alimentano i collegamenti con il terrorismo CAMILLE EID