La Repubblica 2 marzo 2008, GINO CASTALDO, 2 marzo 2008
Massimo Ranieri. La Repubblica 2 marzo 2008. dove andare a cercare Massimo Ranieri? Ma in teatro, è ovvio
Massimo Ranieri. La Repubblica 2 marzo 2008. dove andare a cercare Massimo Ranieri? Ma in teatro, è ovvio. Dove altrimenti? Una casa ce l´ha, com´è naturale, una di quelle vere, con mura, balconi e stanze da letto, ma il vero Ranieri è proprio lì, tra le assi del palcoscenico dove vive una parte più che rilevante della sua vita, sempre in giro, zingaro d´elezione, come i saltimbanchi, come gli attori girovaghi che piantavano la tenda in un angolo di strada e mettevano in scena la loro recita. «Nel nostro caso dovremmo dire emigranti, sapete, noi napoletani siamo sempre emigranti. Basta poco, basta venire a Roma, ma basta anche cambiare quartiere e già ci sentiamo emigranti». La sua casa è il teatro, la sua passione è il teatro, la sua massima aspirazione è il momento perfetto in cui celebrare quella magnifica ossessione del rapporto col pubblico. Ora è a Napoli, per girare un film di Maurizio Scaparro, tratto da un antico copione di Roberto Rossellini, la storia di un attore che portò Pulcinella a Parigi, alla fine del Seicento, la vera vicenda di Michelangelo Fracanzani, uno dei celebri Pulcinella della storia, ma trasportata ai nostri giorni in uno sdoppiamento e sovrapposizione tra la rappresentazione teatrale e il mondo contemporaneo che irrompe coi suoi conflitti. Il camerino del San Carlo lo accoglie come un figlio prediletto, gli posa addosso l´aura nobile della recitazione, la grandezza dei foyer e il velluto delle sedie ricordano anni e anni di depositi di antica arte teatrale. Ranieri è vestito da Pulcinella, momentaneamente senza maschera, che è lì sul tavolino, a un metro dalla sua faccia, ma se ne percepisce l´attrazione, il terribile, amoroso, conflittuale abbraccio tra il volto e il suo doppio scenico. Ranieri si rilassa, inzuppa pane in una tazza di latte, universale panacea per molti napoletani, si riposa tra un ciac e l´altro. Un film, il teatro sempre incombente, i dischi, un´attività vulcanica, incessante, già programmata per mesi con incastri perversi. Ma non sarà troppo? «Ma no», scandisce con flemma, con un sorriso a mezza bocca, «non è mai troppo, in fondo prima di tutto è un piacere, è il mio mestiere, la mia vita, se no questi ritmi sarebbero impossibili da tenere, ma c´è un´altra cosa. Io ringrazio sempre ”o pateterno, faccio un lavoro che mi piace, non ho padroni, non mi devo alzare alle cinque di mattina come faceva mio padre, non devo rendere conto a nessuno, per fortuna me lo fanno fare, e poi... mi pagano pure. Che posso volere di più?». Ora ride, sornione, il cerchio è chiuso, non c´è stress che tenga di fronte a questo sogno a occhi aperti, confortato da un successo di pubblico di proporzioni imbarazzanti, repliche su repliche, esauriti ovunque, gente che torna a vederlo due o tre volte di seguito. Ora c´è il film, ma sta già pensando al nuovo spettacolo che deve allestire, a due regie d´opera lirica, e al disco in uscita, che però ha inciso molti mesi fa temendo, a ragione, di non avere tempo in seguito. I dischi sono stati uno dei punti di forza della sua rinascita, da quando si è trovato con Mauro Pagani a rileggere la storia della canzone napoletana, la sua carriera di cantante ha preso una nuova entusiasmante piega. E ora? «Può sembrare sorprendente ma erano quarant´anni di carriera e in questo disco mi sono voluto togliere molti sfizi, canzoni che mi sono sempre piaciute, anche se sulla carta non sono adatte a me, tipo Vita spericolata. Uno dice, e che c´entra con te? Eppure c´entra, e l´ho voluta cantare. Ho cantato Paoli, Aznavour e perfino Battisti, ma sì, Prendi fra le mani la testa. C´è un motivo: ero al Cantagiro con lui quando la eseguiva. Allora pensavo: quanto mi piacerebbe cantarla. Ho aspettato quarant´anni ma ce l´ho fatta. E poi c´è O sole mio, altra canzone napoletana, come dire, intoccabile. Però mi sono ricordato di come è nata. L´autore si trovava a Odessa, davanti a una landa desolata, ”nu fridd´e pazz, e in quel momento gli è venuta in mente Napoli. Questo è il vero significato di O sole mio, e allora l´abbiamo realizzata in una versione sobria, asciutta, ricordando quella visione ghiacciata nel contrasto con il calore di Napoli. Ho un solo grande rimpianto, volevo fare Zazà con Gabriella Ferri, dissi a Mauro chiamiamola, ma tre giorni dopo è morta». C´è qualcosa nel suo modo di parlare che riflette una speciale ebbrezza, un appagamento interiore forse mai conosciuto prima, la pienezza dei sensi, l´immersione totale e incondizionata nelle tante possibilità del suo lavoro, come se fosse una seconda giovinezza, anche se parliamo di un uomo di appena cinquantasei anni, nato a Napoli come Giovanni Calone il 3 maggio del 1951. Forse sarebbe meglio parlare di maturità, ma priva di quella sedentaria consapevolezza, della pigra soddisfazione che talvolta prende quelli che arrivano in cima. Meglio parlare piuttosto di uno stato di grazia. «Credo che in gran parte lo si deve alla mia donna, giovane, bella, una donna che mi fa sentire amato come non mi sono mai sentito prima. Chi mi conosce da molto tempo, sa delle mie angosce, delle mie disperazioni, ora è tutto diverso e questa è già una cosa molto importante. Poi sono in quell´età in cui si vive la piena maturità di artista e di uomo, e questa è una conferma di una cosa che ho imparato col tempo. Il pubblico vuole sentirsi garantito. I cantanti che hanno più successo ai concerti sono quelli che hanno superato la quarantina, anche in altri campi. Perfino nel rock, vedi Vasco e Ligabue. Perché danno garanzie, perché hanno storie importanti da raccontare. E il pubblico ama associare la sua storia a quella di un artista». Una strana maturità la sua. Il volto è divertente, la simpatia è quella di un monello, cresciuto ma mai del tutto addomesticato, eppure le pieghe del viso stanno scavando un´espressione che a tratti ricorda quella di Eduardo. Trasuda forza, allegria, ma sotto sotto si avverte il demone della continua insoddisfazione. La voglia di andare sempre avanti, di vivere come se non ci si dovesse mai fermare a raccogliere, piuttosto salire, scalare, conquistare una vetta sempre più alta. « il frutto di un lavoro continuo, massacrante, di dedizione. Io non è che ce l´ho da quest´anno il successo, con Canto perché non so nuotare, l´ho accumulato in anni, giorno dopo giorno, cercando di fare sempre almeno un passo più in là nella qualità degli spettacoli, senza mai sedersi e compiacersi. Non voglio dire da uno a dieci quanto valgono i miei spettacoli, non sta a me dirlo, ma se all´inizio valevano almeno uno, oggi valgono sicuramente di più, e il pubblico lo percepisce, ti segue, si sente garantito, sa che non butterà i suoi soldi. E questo, strano a dirsi, invece di tranquillizzarmi mi mette ancora più ansia, più senso di responsabilità». Ma come si fa a riflettere, a capire dove si sta andando quando si corre ad alta velocità tra uno spettacolo, un film, una regia e un disco? «Sono fatto così, mentre sto facendo un lavoro, c´è qualcosa, magari una frase, un episodio, un pensiero che mi dà lo spunto per qualcosa che magari farò tra due anni, quindi elaboro, costruisco quello che farò, non è normale, lo so, ma sono fatto così, è il mio modo di riflettere, le cose, anche se sono sempre preso, hanno una gestazione lunga, maturano nel tempo. Il rischio è la maniacalità, elaboro sempre inconsciamente. Sono sempre curioso, voglio sempre vedere cosa c´è un passo più avanti». Allo steso tempo, se pure guarda sempre avanti, Ranieri rivela qualcosa di antico, le tracce di un´etica del lavoro, forse oggi in estinzione, un´etica che lo spinge a pensare prima di tutto all´arte e poi al conto in banca. E quando parla di questo il volto diventa serio, rigoroso, come se stesse trasmettendo una lezione che viene da lontano: «Il mio conto in banca non crescerà mai, perché tutto quello che guadagno lo reinvesto. Quando faccio uno spettacolo faccio in modo che non ci sia mai una calza smagliata di una ballerina, mai, che non ci sia un granello di polvere sul palcoscenico, mai. Ma questi sono insegnamenti che si ricevono. Io ho avuto il privilegio di avere grandi maestri, che purtroppo non ci sono più, e i giovani non possono avere questa stessa fortuna. Maestri come Scaparro, Strehler, Patroni Griffi, Romolo Valli, maestri che mi hanno spaccato in mille pezzi, ma mi hanno dato prima di tutto un´educazione civile e poi quella del palcoscenico: guardare fino all´angolo più piccolo del teatro e prenderne possesso, pienamente. Sono stato molto fortunato». In tutto questo tempo la maschera di Pulcinella è lì, sembra ascoltare con strafottente e irridente distacco. E non è una maschera qualsiasi. la maschera di Ranieri, fatta su misura, come si usa, costruita da un grande artigiano, Santelli, tutta in cuoio, è solo sua, da quattordici anni, e solo lui può portarla, come una piacevole condanna, la croce e delizia di un personaggio che ha portato in scena innumerevoli volte e che si insinua con forza spiritata, con diabolica indipendenza nella persona che la porta. «Me ne sono impossessato, ce l´ho sempre a casa». Alla fine gli chiediamo di indossarla. Per favore, Ranieri, la può indossare? Dobbiamo fare una domanda proprio a lei. «A chi, alla maschera?» Sì, proprio alla maschera: che ne pensa Pulcinella di Massimo Ranieri? L´attore la indossa, perplesso, la maschera si sovrappone perfettamente al volto, crea una strana simbiosi, lo sguardo diventa un altro, anche la bocca si deforma, guizza subito in uno sberleffo: «Ranieri?», dice la maschera, «ha cercato di dominarmi, ma non c´è riuscito. Io sono uno spirito libero, senza catene, non ho serragli, nessuno può prendermi del tutto». Ce ne andiamo dal San Carlo con un dubbio: chi era veramente a parlare? Massimo Ranieri o la sua terribile maschera? Pulcinella di sicuro lo sa, ha la coscienza della storia, ne ha viste tante, ha sofferto, riso, beffato, si è umiliato, ha amato, ha vinto, proprio come l´attore che lo impersona. GINO CASTALDO