Corriere della Sera 29 febbraio 2008, Mario Gerevini, 29 febbraio 2008
I «fischietti» anticrac arrivano anche in Italia. Corriere della Sera 29 febbraio 2008. La denuncia inascoltata di Sherron Watkins, vice presidente della Enron, che «soffiò il fischietto» nel 2001
I «fischietti» anticrac arrivano anche in Italia. Corriere della Sera 29 febbraio 2008. La denuncia inascoltata di Sherron Watkins, vice presidente della Enron, che «soffiò il fischietto» nel 2001. E il caso di Jeffrey Wigand, uno scienziato chimico che mise in piazza i danni provocati da alcuni additivi contenuti nelle sigarette della Brown and Williamson, la sua azienda. Storie di «whistleblower» (letteralmente: suonatori di fischietto). Ovvero chi dall’interno di un’azienda o organizzazione porta alla luce gravi errori o comportamenti illeciti. Un ragazzo di Varese, Giorgio Fraschini, ha fatto la tesi di laurea magistrale in giurisprudenza (110/110) su questo fenomeno attualissimo. Che l’ha a tal punto appassionato da trasferirsi per qualche tempo a Londra, non nella «solita» banca d’affari, ma presso il Public Concern at Work, la fondazione che è il punto di riferimento per il whistleblowing nel Regno Unito. E non è un caso che il correlatore della tesi sia stato l’avvocato Mario Zanchetti, il legale di Abn Amro che convinse un funzionario della ex Popolare Lodi a denunciare alcune gravi irregolarità di gestione. Fu la classica palla di neve che generò la valanga delle inchieste giudiziarie sulle scalate del 2005. E verrebbe da chiedersi: se un «whistleblower » ci fosse stato anche nei casi Parmalat e Cirio quanti miliardi di euro di falsi in bilancio e buchi contabili avremmo potuto «risparmiare»? Ma se anche ci fosse stato, che tutele avrebbe avuto? un punto chiave che va a toccare il cuore delle diverse discipline giuridiche ma anche aspetti etici e psicologici: il rapporto con i colleghi, con i datori di lavoro, con l’opinione pubblica. Decidere di lanciare l’allarme è spesso un «dilemma personale – secondo Fraschini – tra la propria onestà intellettuale e culturale e il senso di lealtà nei confronti del datore di lavoro». Ma è sempre l’alternativa al silenzio o, peggio, all’omertà. Non è indifferente, ovviamente, la dimensione di un’azienda o di un’organizzazione (anche pubblica) e la sua apertura al mercato: più è grande e più il dipendente che vede «il marcio» sente l’esigenza di una denuncia socialmente utile, anche se difficile a livello personale. Ma deve esserci anche una cultura giuridica e aziendale che favorisca e incentivi chi denuncia, ovviamente a ragion veduta, dall’interno di un’azienda, atti illeciti commessi dai dirigenti. E qui il mondo si divide. Gli Stati Uniti, scottati dagli scandali Enron e WorldCom, hanno incluso la disciplina sui whistleblower (aziendali) nel Sarbanes-Oxley Act del 2002: ampie tutele e allettanti incentivi (percentuale sul denaro eventualmente recuperato grazie alla denuncia). Anche il britannico Public Interest Disclosure Act (1998) offre una normativa completa sul fenomeno. Cosa che invece manca quasi completamente in Italia e nell’Europa occidentale, dove spesso il freno, se non l’incompatibilità, è dato da leggi come quella sulla privacy. Da noi, poi, il whistleblower della ex Popolare Lodi, cacciato dalla banca che gli ha fatto causa (poi ritirata), insegna purtroppo che la denuncia non paga, semmai a pagare è proprio chi denuncia. Mario Gerevini