Corriere della Sera 27 febbraio 2008, Carlo Verdone, 27 febbraio 2008
Genio, difetti, solitudine Vi racconto Albertone. Corriere della Sera 27 febbraio 2008. Fu lui, Alberto, a dirmi un giorno a Punta Ala, mentre giravamo In viaggio con papà, che gli dispiaceva non aver avuto figli e che però forse qualche erede lo lasciava
Genio, difetti, solitudine Vi racconto Albertone. Corriere della Sera 27 febbraio 2008. Fu lui, Alberto, a dirmi un giorno a Punta Ala, mentre giravamo In viaggio con papà, che gli dispiaceva non aver avuto figli e che però forse qualche erede lo lasciava. Poi mi diede uno schiaffetto in faccia, per avvertirmi che il dado era tratto. Ne fui lusingato: era come se avesse ufficializzato qualcosa che era nell’aria, nello spirito delle cose e del nostro lavoro. Ma devo anche dire che io ho sempre preso le distanze dall’«eredità Sordi» per un motivo semplice: che c’era una grande differenza tra di noi. Sordi è stato una grande maschera e rientra a pieno titolo nella galleria dei simboli più significativi della commedia italiana e della nostra cultura popolare, alla pari con Arlecchino, Brighella, Pantalone e Pulcinella. Uguali e diversi Sordi possedeva una maschera unica di cui deteneva il copyright, quel suo faccione buono, sornione, con gli occhi furbi, l’atteggiamento da lavativo sempre pronto alla fregatura e a prenderti in giro, come nella Grande guerra. Caratteristiche precise e marcate, amate dal pubblico. Questo concetto della sua eredità, dopo il film girato insieme, è stato poi ribadito da lui in un’intervista: «Questo ragazzo è il mio erede». Certo, ci sono cose che ci uniscono molto. Mi ritrovo nel suo percorso quando devo osservare una moltitudine di «mostri», i difetti, i tic e quei dettagli che fanno parte dell’essenza e dello spirito del made in Italy e della satira. Se si tratta di osservare certe fragilità e ossessioni, ho la sua passione e la sua sensibilità. Caratterialmente mi sento molto diverso: non mi identifico nella sua simpatica cattiveria, non sposo quel cinismo che ci ha fatto divertire per anni. I miei personaggi, spesso, hanno un tratto di umanità più marcato e magari cercano pure la redenzione, come le figure paterne (anche drammatiche e inadeguate) che grazie all’età ho interpretato in L’amore è eterno finché dura e Il mio miglior nemico. Alberto, invece, era pavido, furbo, scanzonato e lavativo perché non abbandonava mai quella maschera. I padri, nei suoi film, sono disastrosi: da Finché c’è guerra c’è speranza al marito terribile delle Vacanze intelligenti, fino al genitore mitomane di Fumo di Londra. Sordi al cinema non sentiva gli umori della famiglia, perciò faticava a interpretare quel ruolo: aveva sempre mogli e figli grassi e ridicoli, gli mancava l’empatia con il personaggio. Lui del resto, nella vita privata, aveva sposato il suo lavoro, la sua casa e il rapporto con le sorelle: non c’era spazio per una donna. Quando raccontava che aveva paura di svegliarsi di notte con un’estranea nel letto, lo diceva per davvero. E infatti da giovane si era innamorato della Magnani, più grande di lui, allora più famosa, più determinata e decisamente autoritaria. La mancanza della famiglia Negli anni credo che abbia sentito questa grandissima mancanza. Sul set ci siamo frequentati, mi ha dato molto affetto e tantissimi consigli. Mi suggeriva: guarda le persone senza stancarti mai. Però subito dopo aggiungeva: mi dispiace per te, Carlo, ma oggi non c’è più senso del ridicolo ed è tutto più difficile. Noi commedianti, diceva lui e ripeto io, dobbiamo essere pedinatori, detective, osservatori, conservando sempre la voglia di stupire ed indignarci. Il guaio è che ormai non si indigna più nessuno e alla gente scivola addosso tutto. Una volta l’antica parola «coatto », che non voglio più sentire, identificava il bullo di periferia, un personaggio ben delineato, un unicum che incontravi solo in alcune zone: adesso, invece, siamo tutti un po’ «coatti », perché la volgarità è diventata il minimo (o massimo...) comun denominatore delle nostre vite. L’eccezione alla regola fu il padre vero di Un borghese piccolo piccolo, perché Sordi lì aveva un grande regista, Monicelli: con lui Alberto diede il meglio di sé, pur non condividendone le idee. Quando si dirigeva da solo, è cosa nota, era meno efficace. Era un attore sublime ma doveva seguire il regista per esaltare la sua vena drammatica o malinconica. Il Sordi che preferisco Qual è il Sordi che preferisco? Quello dei film in bianco e nero, che mi hanno spinto ad amare il nostro cinema e la commedia. Era meraviglioso perché, senza saperlo, rompeva tutti gli schemi della recitazione d’accademia. Era anarchico nello stile e addirittura all’avanguardia nella rapidità d’esecuzione: vedi la presa in giro del birignao da «grande attore» e di quella dizione che rifiutava. Lo sceicco bianco e I vitelloni sono i suoi primi capolavori. Fellini aveva anticipato e scoperto tutto della sua anima e in quelle due pellicole anticipò il meglio dei personaggi che Sordi avrebbe interpretato successivamente: il superficiale, lo scanzonato, il drammatico, il volgare con gli occhiali da sole. Fellini con il suo grande intuito aveva capito Albertone meglio di chiunque altro. In finale di partita mi parlavano l’uno dell’altro: Sordi diceva che Fellini a volte sembrava un imbroglione, Fellini mi raccontava di quanto quell’attore fosse grandissimo e cialtrone. Ma si volevano bene davvero. Per Sordi, il volto fu la fortuna e il limite. Con quella maschera riusciva a descrivere perfettamente invadenza, piccineria e carogneria. Ma era anche ostaggio della sua faccia e quando esplorava temi drammatici il pubblico faticava a riconoscerlo. Essere schiavi di una maschera è una grande fortuna, ma è pure una prigione, perché è difficile controllarne le inevitabili mutazioni nel tempo. Perché non capiva i giovani Veniamo all’ultima fase della carriera di Sordi, quella dove i punti di divergenza tra noi sono più marcati: lui non capiva il mondo dei giovani e se ne rammaricava. Io che sono padre, e mi confronto ogni giorno con le mutazioni della società, cercavo di affrontare l’argomento da un’altra angolazione, offrendogli qualche nuovo spunto di riflessione. Inutilmente, però. Il destino dei grandi artisti di avanguardia, e Alberto è stato senza dubbio uno di loro, è di finire conservatori. Lui era ostinato nel non avere un contatto col mondo. Il suo limite era il personaggio: viveva come in un suo film tra feste, omaggi e serate. Ma nella sua casa si respirava una atmosfera di ombre e penombre, c’era un ordine maniacale che non corrispondeva a quell’immagine di anarchico caciarone che mi aveva sedotto da giovane. Abitava in un «monastero » elegante, signorile, all’ingresso dell’Appia Antica, ma sempre con le serrande abbassate, sempre al buio, dove non entravano la realtà, i rumori della strada. Io, che pure ho superato i cinquant’anni, sento il bisogno di uscire la mattina e di parlare con la gente, ascoltarla soprattutto. Se ti chiudi in un «eremo», finisci per non comprendere più i sentimenti delle persone, il linguaggio che si modifica ogni giorno con i giovani, i cambiamenti del costume prodotti dalle nuove tecnologie: penso ai telefonini, a internet, a neologismi da brivido tipo «baipassiamo», «ci riconnettiamo» «un gigabacio» etc... Lui viveva nel ricordo del suo passato. Un giorno, per prova, gli feci sentire una bellissima canzone rock di Peter Gabriel, San jacinto, un tema etnico e oscuro di raffinatezza estrema, ma mi disse che non ci capiva proprio nulla, che per lui era solo «una cagnara de’ tamburi e basta». Era legato a piero Piccioni e ai suoi leit motiv brasiliani anni ’60, fermo, immobile nel tempo, mentre un attore si deve rinnovare, continuare a frequentare, osservare, raccontare l’oggi e cercare di capirlo. Lui aveva vissuto invece l’epoca d’oro e si era stancato, anche perché l’assenza di un contraddittorio e di una famiglia l’aveva segnato. Viveva alla fine in isolamento forzato con il suo personaggio, non rideva quasi mai dentro casa. Certo, con Scola e Monicelli girò film indimenticabili anche quando passò al colore: ricordo il Marchese del Grillo e quel fratacchione dell’Anno del Signore di Magni che poteva fare solo lui e che forse fu l’addio della sua maschera classica. Io preferisco il Sordi che partiva con l’anarchia in Un Americano a Roma, anche se alla sua grandissima intuizione e penetrazione non sempre corrispondeva un’adeguata cultura. Quando morì, dopo il sindaco, fui tra i primi a commemorarlo in pubblico. Mi sentii davvero investito di qualcosa di importante e allora capii che dovevo portare avanti a modo mio, sia pur con le dovute differenze, il lavoro di questo unico, grandissimo attore rimasto nel cuore di tanti italiani. Negli anni ’90 una rivista di destra lo attaccò. Scrisse che Sordi era stato una catastrofe e un cattivo esempio per i molti, troppi imitatori: lo accusò pure di non aver saputo criticare il costume degli italiani e di essersi limitato a clonare delle macchiette, sul modello «medico della mutua». Lui commentò amaramente: «Roba da pazzi! Certo, bisognava aspettarselo dall’estrema sinistra...». Gli risposi: «Guarda che l’attacco viene da destra»... «Ma davéro?!!! -replicò stupito- Ma che la destra m’attacca?!!» E rimase un minuto nel più terribile dei silenzi. Sembra la battuta di un suo film. Quei film di cui Sordi era rimasto prigioniero. Carlo Verdone