Corriere della Sera 1 marzo 2008, Francesca Bonazzoli, 1 marzo 2008
George e gli altri, gli amori maledetti. Corriere della Sera 1 marzo 2008. Per raccontare la vita affettiva di Francis Bacon occorre iniziare dalla fine, da quella specie di tragico epitaffio che compose egli stesso: «La mia vita è stata un disastro
George e gli altri, gli amori maledetti. Corriere della Sera 1 marzo 2008. Per raccontare la vita affettiva di Francis Bacon occorre iniziare dalla fine, da quella specie di tragico epitaffio che compose egli stesso: «La mia vita è stata un disastro. Molte delle persone che ho conosciuto erano ubriache o si sono suicidate e tutti quelli cui mi sono veramente affezionato sono morti in una maniera o nell’altra. solo quando sono morti che si capisce fino in fondo quanto li si amava». Tutt’altro che un passatempo voyeuristico, indugiare nella vita privata dell’artista è una necessità: come apparirebbe riduttiva la lettura, per esempio, di «Due studi per un ritratto di George Dyer» se non conoscessimo chi era quest’uomo e quale rapporto lo legava all’artista? Ovviamente non potremo mai sapere tutto, ma proprio le zone d’ombra che rimangono fra vero e verità sono quelle in cui l’arte si ritaglia il suo spazio rispetto alla cronaca. Non è un caso che del primo incontro fra George e Francis esistano due versioni, entrambe fornite dai diretti interessati. La prima vuole che George abbia fatto irruzione di notte nella casa di Bacon per rubare; la seconda prevede invece lo scenario di un bar di Soho dove George abbordò Bacon che stava bevendo in compagnia del fotografo John Deakin con un banale: «Sembra che vi stiate divertendo. Posso offrirvi un drink?». Comunque sia andata, George Dyer era un ladruncolo maldestro dell’East End, un tipo ansioso, balbettante, con una voce nasale difficilmente comprensibile. «Quando l’ho incontrato – dichiarò Bacon – George aveva passato più tempo in prigione che fuori. Penso che fosse semplicemente troppo gentile per essere un truffatore. In ogni caso veniva sempre preso». Quale miglior derelitto da confortare per il ricco e mondano Bacon, reduce da un devastante rapporto sadomasochista – tutto alcool, violenze e infedeltà – con il fascinoso pilota collaudatore Peter Lacy, morto nel 1962, il giorno prima dell’inaugurazione della retrospettiva che la Tate stava per dedicare a Bacon? Cacciato di casa a sedici anni, dopo che il padre scoprì la sua omosessualità, Bacon aveva un grande bisogno di affetto, anzi, molto di più: aveva bisogno di una famiglia. «Sono diventato pittore per essere amato », dichiarò nella sua ultima intervista a Francis Giacobetti, due mesi prima di morire, a Madrid. E infatti si circondava di un codazzo di parassiti, perditempo, ubriachi e debosciati per non restare mai solo. Anche l’ultimo compagno, John Edward, che divenne l’erede di Bacon, era un barista dislessico, quasi incapace di leggere e scrivere, che per di più non aveva alcuna intenzione di lasciare il precedente amante, tale Phil the Till. Ma a Bacon andava bene così: dormiva poco, beveva molto, scommetteva al gioco, si godeva la vita e non gli importava di accumulare soldi: «La gente crede che io viva in modo grandioso, in realtà vivo in una topaia», diceva del suo stile e della sua casa-studio, tre locali al numero 7 di Reece Mews, a South Kensington, che occupò per oltre tre decenni. All’epoca in cui si incontrarono, il ladruncolo Dyer aveva trent’anni, un fisico atletico e ben piantato, una cura ossessiva degli abiti, sempre stirati, da cui spazzava via in continuazione la cenere di sigaretta che vi cadeva sopra. Con il suo abbigliamento preferito, la camicia bianca, la cravatta scura e il vestito nero, Bacon lo ritrasse nel 1968 in «Due studi per un ritratto di George Dyer», seduto su uno sgabello, la gamba accavallata e le sigarette sparse intorno al posacenere, somigliante e ben riconoscibile dal grande naso. Ma il vero ritratto che gli fece è quello accanto, ovvero la sagoma di carne, con la mascella esplosa, fissata alla tela attraverso chiodi di ferro: un quadro nel quadro dove l’immagine di George è come riflessa in uno specchio, ma nuda. Qualcosa di simile al ritratto che Dorian Gray, nel romanzo di Oscar Wilde, teneva in soffitta e che invecchiava al posto suo, assorbendo tutti i segni della crescente depravazione mentre lui si preservava giovane e bello. Che cosa vedeva Bacon in fondo all’anima di George? Quale strazio intuiva alcuni anni prima del suicidio del suo amato, ancora una volta alla vigilia dell’inaugurazione di un’altra sua mostra, quella al Grand Palais di Parigi, nel 1971? Dyer aveva già tentato il suicidio, ma Bacon era sempre arrivato in tempo per salvarlo. Troppo tardi, però, nell’intuire la verità che gli si rivelerà a posteriori: «Alla fine, dandogli troppo denaro per fare nulla, gli ho tolto ogni scopo nella vita. Rubare gli dava almeno una ragione d’essere, anche se non aveva successo». E forse allora la sagoma di carne inchiodata sulla tela speculare al ritratto di George, potrebbe essere in realtà il corpo stesso straziato di Bacon e del suo dandismo tragico. La sagoma di colui che, assorbendo l’autodistruzione dell’altro e di tutti i suoi amici disperati, è potuto sopravvivere come un vampiro fino a 82 anni. Qui forse sta il motivo della sua sconsolata dichiarazione d’impotenza: «Ho sempre sognato di dipingere il sorriso, ma non ci sono mai riuscito». Francesca Bonazzoli