La Stampa 3 marzo 2008, FRANCESCA PACI, 3 marzo 2008
Nella Striscia irriducibile. La Stampa 3 marzo 2008. Hassan non ha paura. Ha compiuto 12 anni venerdì sotto i missili israeliani che da cinque giorni rispondono al fuoco di Hamas bersagliando la periferia Est del campo profughi di Jabaliya dove vive con la famiglia, mamma, papà, sette fratelli, tre sorelle
Nella Striscia irriducibile. La Stampa 3 marzo 2008. Hassan non ha paura. Ha compiuto 12 anni venerdì sotto i missili israeliani che da cinque giorni rispondono al fuoco di Hamas bersagliando la periferia Est del campo profughi di Jabaliya dove vive con la famiglia, mamma, papà, sette fratelli, tre sorelle. «Ho visto due corpi di martiri fatti a pezzi, proprio lì», racconta senza turbamento indicando una montagnola di sabbia sullo sterrato invaso da ragazzini come lui. Soldati in prima linea, incuranti delle raccomandazioni della tv, calamitati dal fronte aperto contro «il nemico sionista», ebbri del mito della morte catartica. I carri armati appostati a cinquecento metri oltre le ultime case ripetono senza tregua la stessa nota, ratatata. Hassan è sincero, davvero non è spaventato, non dalla guerra almeno, ci è cresciuto dentro, un grottesco grembo materno: «Abbiamo coperto il sangue che era sparso tutto in giro». Ora sono di nuovo in strada a dire che 10 palestinesi morti ieri, 61 sabato, 106 da mercoledì mattina, non fanno paura. Non qui. Da Jabaliya a Gaza City, poco più di dieci chilometri, si snoda un lungo multiplo funerale interrotto da soste e colpi di kalashnikov nei punti in cui ci sono stati caduti. Le macerie della palazzina degli Atallah, distrutta da un missile sabato notte, sono già una pietra miliare di questo macabro corteo. Sei vittime, madre, padre, due sorelle e due fratelli entrambi leader delle Brigate al Qassam. «Erano appena rientrati in casa, gli israeliani hanno mirato a colpo sicuro» dice il cugino Abu Assad, impiegato del governo, lasciando intendere che «qualcuno dei vicini ha parlato». Tra i calcinacci da cui spuntano un materasso, una bacinella per il bucato, pentole accartocciate, Samir e Ali, 13 e 14 anni, giocano a tirarsi piccole pietre. «Alla fine vinceremo noi perché a differenza degli ebrei non ci tiriamo indietro di fronte al martirio», spiega Ismail el Ashqer, membro del consiglio legislativo di Hamas insieme a Mahmoud al Zahar e Haniyeh, uno dei «dead man walking» obiettivo dei raid israeliani. Cambia indirizzo più volte per l’appuntamento, si muove ogni mezz’ora, alla fine decide per un garage a Sud di Jabaliya. La vocazione alla morte in battaglia sarà la carta decisiva ma, ammette, non l’unica: «Non siamo equipaggiati come si millanta, altrimenti avremmo già distrutto Israele, insciallah. Però negli ultimi tempi ci siamo dati da fare. Non chiediamo altro che gli ebrei ci invadano, troveranno parecchie sorprese: tunnel di cui sanno poco, armi contro i carri armati Merkava e soprattutto nuovi razzi. Li stiamo aspettando: se penetrano nella Striscia non ne escono vivi». Ogni vicolo, ogni abitazione, ogni cortile è una potenziale trincea. Israele lo sa e prende tempo: a Gerusalemme l’ipotesi dell’invasione raccoglie molte perplessità. Una cosa è il campo aperto al margine di Jabaliya, altra la giungla delle città palestinesi con una densità di popolazione altissima. Anche all’ospedale Shifa, il più importante di Gaza, trovi uomini pronti a combattere. Nasser Hadar aspetta che il figlio Shukri, 7 anni, colpito al collo da un proiettile, venga accompagnato a Rafah con una delle 27 ambulanze che ieri hanno trasportato 200 feriti oltre il confine. tardi per proteggere Shukri, ma Nasser ha altri cinque bambini: «Se gli israeliani arrivano ci trovano preparati, la rabbia ci carica di giorno in giorno». Al pronto soccorso Fatima al Bijar tiene l’elenco aggiornato di morti e feriti, provenienza, nome, età. Gli over 50 si contano sulle dita di una mano: il 47,6 per cento della popolazione della Striscia di Gaza ha meno di 15 anni. «Siamo sommersi di gente che vuole arruolarsi, morire per morire tanto vale cadere sul campo», dice uno dei comandanti delle Brigate Ennasser, nome di battaglia Abu Asef, passamontagna nero sul viso, giacca e pantaloni da impiegato. Alle sue spalle, in un sottoscala scalcinato di Khan Yunis, due giovanissimi col volto coperto e il Kalashnikov a tracolla tengono d’occhio la porta. Raccontano di aver affrontato gli israeliani sabato, quasi corpo a corpo: «Quando arrivavamo a poche decine di metri lo scontro era violentissimo». Vita e morte a Gaza sono la stessa moneta. All’ingresso dello Shekh Radwan, tra lapidi bianche e senza foto, ci sono dieci corpi sepolti nelle ultime ore e orientati verso la Mecca, che da qui è la direzione di Jabaliya. Quattro bambini si rincorrono saltando sulla terra fresca, quando due aerei israeliani sganciano un missile poco più in là alzano appena gli occhi al cielo. FRANCESCA PACI