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 2008  marzo 03 Lunedì calendario

L’isola dei bambini perduti. La Stampa 3 marzo 2008. Un portone senza insegne, una casa anonima come quelle che le stanno intorno e come l’intero paesaggio vallone che la circonda, un luogo senza cartoline

L’isola dei bambini perduti. La Stampa 3 marzo 2008. Un portone senza insegne, una casa anonima come quelle che le stanno intorno e come l’intero paesaggio vallone che la circonda, un luogo senza cartoline. Non comunica nulla a chi le passa davanti e in questo fa bene il suo lavoro, perché non esiste sugli elenchi dell’amministrazione, sulle mappe o su Internet. I curiosi sono tenuti alla larga, il segreto è custodito con cura. Nessuno è veramente benvenuto nella versione più inaccettabile dell’Isola che non c’è, il rifugio dei bambini perduti, perduti davvero, nel senso peggiore della parola. Violentati, sfruttati, venduti. Offesi e svuotati. Dietro queste mura ogni racconto sposta la frontiera dell’incredibile. Qui l’impossibile diventa realtà. Qui, però, si ricostruisce la speranza di minori sprofondati nell’abisso, nel silenzio e nel riserbo. Si cancella l’orrore e si regalano vite nuove. Il nome che scriverebbero all’entrata, e non lo faranno mai, è «Servizio d’accoglienza per minori stranieri non accompagnati, vittime della tratta degli esseri umani», pratica - quest’ultima - talmente integrata nel quotidiano dall’essere diventata una sigla, così si fa prima: la chiamano «Teh», traite des êtres humains. un centro aperto sette giorni su sette, ventiquattro ore su ventiquattro. Esiste dal 2003, da quando la comunità francofona del Belgio ha deciso di dare un contenuto all’impegno per gli schiavi del ventunesimo secolo. Centomila, 200 mila, mezzo milione in Europa, una cifra tanto disgustosa quanto mutabile a seconda di chi tenta di dare un numero allo strazio. Ora, nella maison belga, ci sono quindici giovani ospiti, di ogni razza e colore. Uno, arrivato da poco, è a pezzi nel senso concreto del termine; è stato a lungo in ospedale, ha le ossa rotte. Avrà si e no sedici anni. Per scappare ai suoi padroni, dopo due anni di abusi, si è lanciato dalla finestra. Lo hanno trovato che non aveva la forza di urlare, appiattito sulla strada. E’ salvo per miracolo, ma il vero prodigio stanno cercando di farlo fra queste scialbe mura dove lo hanno condotto quando i medici hanno ritenuto potesse stare in piedi da solo. Cercano di curarlo, tranquillizzarlo, rappacificarlo con un mondo dal quale non si aspettava più nulla di buono. C’è una bambina che ha dimenticato anche se stessa. Racconta che quando le forze dell’ordine l’hanno strappata a chi da tempo la usava come veicolo di sfogo per ogni necessità e capriccio, non ricordava neanche il suo nome. E ce n’è un’altra che, venduta dalla famiglia, si è ritrovata legata e drogata. Confessa che nello scorgere i poliziotti che la portavano via dalla sua prigione, si era già vista sul tavolo di uno dei macellai senza scrupoli che gestiscono il traffico degli organi umani per i trapianti. Pensava fosse la fine. Invece era salva e non poteva immaginare che fortuna che le stava capitando. Nella maison Teh non c’è limite alla tragedia. E’ passato per il centro anche un bambino di cinque anni in condizioni pietose. Numerose sono le ragazze, poco più che bambine, costrette a matrimoni forzati, affidate alle mani di esseri ignobili che le pagano poche decine di euro, sbattute sul marciapiede, o semplicemente condannate ad esistenze miserabili da parenti e conoscenti. Una delle giovani ospiti porta con sé un neonato. Per il personale è un doppio compito, le anime da salvare sono due. Il Belgio tutela il popolo dei minori Teh da quasi vent’anni. Il risultato è ancora una goccia nel mare davanti ad un traffico gonfiato dalla domanda di pedofili, prosseneti, sfruttatori d’ogni sorta. Comunque, un passo avanti. Nel centro vallone lavorano a tempo pieno 22 persone, psicologi, insegnanti, criminologi, paramedici. Il regolamento prevede che siano sempre in servizio almeno tre adulti. La porta è regolarmente chiusa a doppia mandata. Tutti hanno paura, in questo limbo. Qualcuno potrebbe tentare di riprendersi il suo schiavo, certo senza chiedere il permesso. Occorre pazienza e rigore. La rieducazione delle giovani vittime, in genere clandestine, può richiedere anni. Ci vuole tempo per imparare a guardare avanti scordando il passato. Per questo, all’inizio, li isolano e li assistono uno a uno. In un secondo momento, ristabilito un equilibrio anche precario, si valuta il reinserimento nella società. A chi è possibile, viene concesso di contattare i familiari. Alla fine, si lavora sul reinquadramento nella società, magari anche al ritorno al paese di origine. La legge belga prevede una protezione e un permesso di soggiorno illimitato al raggiungimento della maggiore età per chi collabora con la giustizia. Sembra che molti dei bambini perduti riescano a salvarsi. Sono pochi, ma gli addetti ai lavori invitano a non pensarci, a non ragionare su quanti là fuori non abbiano lo stesso destino. La filosofia è che da uno si comincia. Gli altri verranno. A patto che tutti decidano di far qualcosa e di farlo subito. Marco Zatterin