Il Manifesto 27 febbraio 2008, EMILIANO BRANCACCIO - ROSARIO PATALANO, 27 febbraio 2008
La compagnia dello stato virtuoso. Il Manifesto 27 febbraio 2008. Tempi di ferro attendono il nostro paese, ancor più duri forse di quelli che ci lasciamo alle spalle
La compagnia dello stato virtuoso. Il Manifesto 27 febbraio 2008. Tempi di ferro attendono il nostro paese, ancor più duri forse di quelli che ci lasciamo alle spalle. Potrebbero essere, tuttavia, anche tempi di oltrepassamento delle incertezze, di chiarimento interno, e di scelta tra opzioni programmatiche alternative. Uno dei numerosi problemi che hanno attanagliato la sinistra in questi anni è consistito infatti nel dire e non dire, nel prospettare senza scegliere, nello sperare senza agire. E nell’evocare magari un certo sentiero per poi tuttavia muoversi, più o meno consapevolmente, in direzione esattamente opposta ad esso. questa la pecca del volume Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica, a cura di Ugo Mattei, Edoardo Reviglio e Stefano Rodotà, edito dal Mulino (pp. 396, euro 20). Si tratta, beninteso, di una raccolta di saggi, di giuristi ed economisti, di notevole interesse scientifico. Ma sul piano politico, della «inversione di rotta» annunciata fin dal titolo, si rileva di fatto una sbandata, una contraddizione tra gli auspici da un lato e gli strumenti per conseguirli dall’altro. Un patrimonio all’asta Nella loro introduzione al volume, infatti, i curatori mostrano una forte consapevolezza del ruolo essenziale dei poteri pubblici per il conseguimento di obiettivi di sviluppo economico, sociale e culturale del paese. Gli autori dei contributi sostengono che le istituzioni pubbliche nel corso degli ultimi lustri sono state mortificate nella loro azione. E in tal senso non solo criticano le privatizzazioni, ma si interrogano pure sulla maturazione dei tempi per tornare a parlare di nazionalizzazioni. Si tratta di riflessioni coraggiose, razionali e benefiche. Tuttavia - in ciò sta il problema - non ci pare che i curatori dispieghino una linea di indirizzo che possa ritenersi logicamente coerente con gli iniziali propositi. E questo per un motivo in fondo semplice: essi appaiono vincolati, per non dire ideologicamente soggiogati, dal dogma dei «conti in ordine», che li rende subalterni all’idea di dovere ad ogni costo trovare un modo per abbattere il debito pubblico, e che li spinge pertanto verso opzioni antitetiche ai loro stessi scopi iniziali, di difesa e di rilancio dell’intervento pubblico nell’economia. L’intero libro sembra ruotare attorno a una proposta avanzata a più riprese da Giuseppe Guarino, giurista ed ex-ministro dei governi Fanfani e Amato. La proposta di Guarino - riportata in due interventi all’interno del volume - pare aver suscitato in questi anni un certo interesse anche tra le forze situate alla sinistra del Partito democratico (al punto che essa di recente ha trovato ospitalità pure sulle pagine della rivista Alternative per il socialismo). Questo interesse a sinistra suscita tuttavia non poche perplessità. Guarino infatti motiva la sua ricetta con la necessità, per lui assoluta, di giungere alla fatidica soglia del sessanta percento del rapporto debito/Pil, così come stabilito dal Trattato dell’Unione. Al pari di Carlo Azelio Ciampi e di Tommaso Padoa Schioppa - e oggi presumibilmente di Walter Veltroni - Guarino insomma aderisce in pieno ai famigerati parametri di Maastricht. Egli tuttavia precisa che per rispettarli bisognerebbe adottare soluzioni a suo avviso meno draconiane di quelle messe in atto fino ad oggi. Si dovrebbe cioè abbandonare la politica di rimborso del debito fondata sulla dolorosa creazione, anno per anno, di continui eccessi di entrate fiscali rispetto alle uscite dello Stato. Per Guarino questa politica potrebbe essere efficacemente evitata grazie allo sfruttamento della ricchezza effettiva e potenziale del patrimonio pubblico. Dove per sfruttamento, si badi bene, dovrà intendersi la messa a valore del patrimonio dello Stato ai fini della dismissione: cioè della vendita ai privati. Alchimie finanziarie Guarino propone innanzitutto di classificare i beni che costituiscono il Conto patrimoniale delle Amministrazioni pubbliche secondo il loro grado di alienabilità. Si stilerà così una lista di voci ordinate secondo uno spettro decrescente di «liquidità»: dalle partecipazioni in borsa, alle case popolari, agli immobili di interesse storico, artistico, archeologico, che potrebbero essere immessi sul mercato dopo aver abolito il vincolo di inalienabilità. Secondo una stima approssimativa, dice Guarino, si può valutare tutto questo tesoro in 430 miliardi di euro. La sua vendita permetterebbe quindi di abbattere il debito pubblico intorno al 70 percento, ossia molto vicino al parametro del Trattato, e tutto in un solo colpo.Ma come si possono trovare gli acquirenti con immediatezza? A questo scopo Guarino ritiene lecito ricorrere a un espediente che sotto molti aspetti somiglia ad alcune tra le più famigerate alchimie finanziarie della storia, dalle settecentesche operazioni contabili di John Law alle più recenti cartolarizzazioni di Giulio Tremonti. Guarino propone infatti di trasformare la ricchezza nascosta del patrimonio pubblico nel capitale sociale di una grande società per azioni, il cui scopo dovrà esser quello di «gestire» il patrimonio per ricavarne un utile che renda le azioni appetibili, e che permetta quindi di procedere alla loro vendita progressiva sul mercato. Più gli utili saranno brillanti, più le azioni cresceranno nel loro valore e troveranno facile collocabilità, più saranno rapidi gli introiti dello Stato e la possibilità di rimborsare il debito pubblico. Ci si potrebbe così liberare del fardello del debito in breve tempo, senza dover proseguire con la sfibrante politica restrittiva imposta da Ciampi fino a Padoa Schioppa, ed effettuata anno per anno a colpi di tagli, tasse e tariffe, molto spesso a danno dei lavoratori. Dunque, in apparenza, Guarino sembra aver trovato l’uovo di Colombo. Ma a quale prezzo? Altissimo. In primo luogo, sussiste un vizio a monte dell’intero ragionamento. Guarino non si sofferma infatti sui motivi per cui bisognerebbe per forza agire in questa direzione. Nei suoi interventi ad esempio sembra mancare qualsiasi riferimento a una evidenza ben nota nella letteratura specialistica, e cioè che una eventuale crisi dei conti pubblici non verrebbe da sé, ma scaturirebbe invece con grande probabilità da una crisi dei conti esteri. quindi di questi ultimi che bisognerebbe sempre prioritariamente discutere. Ma Guarino di ciò non sembra avvedersi, e rimane pertanto ancorato all’abusata litania dei conti pubblici «in ordine». Non staremo tuttavia qui a far le pulci all’analisi di Guarino dal punto di vista macroeconomico (a tal proposito segnaliamo però anche le critiche mossegli da Marcello De Cecco in un saggio riportato nel volume). Ci soffermiamo invece sulle questioni più semplici e al tempo stesso più delicate sollevate dalla sua proposta. A partire dalla questione centrale della proprietà, sulla quale Guarino assume un atteggiamento pericolosamente neutrale. Per lui, infatti, è «indifferente che il controllo della società rimanga in mani nazionali o venga acquisito da soggetti esteri, o che la partecipazione sia frazionata a tal punto da realizzare in modo pieno il modello della public company». Insomma, che le azioni possano cadere nelle mani di speculatori o che la loro vendita possa preludere ad un allontanamento dal nostro paese della testa pensante dei capitali collocati, nulla di tutto questo sembra inquietarlo: «l’importante è che il traguardo (la riduzione del debito) sia centrato». Verrebbe quasi da dire che l’ansia per i conti pubblici «in ordine» può talvolta degenerare in ossessione suicida. Ma anche l’altra faccia della medaglia appare tutt’altro che rassicurante. A fronte delle azioni vi sono infatti i beni da «vendere». Guarino a questo riguardo è intransigente: pur di rispettare il limite del «deficit pubblico eccessivo» sancito dal Trattato dell’Unione, egli è disposto a cedere persino i beni demaniali, i beni indisponibili, i beni culturali. L’arte cartolarizzata L’unica garanzia che Guarino pare disposto a concedere su di essi, è che ci sarebbe un particolare regime che consiste nel «trasferimento della proprietà del bene; presa in locazione dello stesso da parte dello Stato con contratti di lunga durata (decennale o pluridecennale), con clausola contrattuale che ponga a carico dello Stato locatario tutti gli oneri di ordinaria e straordinaria amministrazione». Ci perdonerà il professor Guarino, ma a noi tutto questo ricorda molto da vicino lo sketch di un noto film nel quale Totò cercava di truffare un miliardario italo-americano, mister Deciocavallo, fingendo di vendergli nientemeno che la Fontana di Trevi. Con una differenza non trascurabile, però. Questa volta non di truffa si tratterebbe, ma di un’operazione legale a tutti gli effetti. Il Deciocavallo di turno questa volta sarebbe garantito nell’acquisto, e potrebbe poi godersi il canone di locazione corrisposto dallo Stato. Ma il punto chiave è che forse, se volesse, Deciocavallo potrebbe a un certo punto far pressioni per svincolarsi ulteriormente, non più concedendo in locazione la Fontana allo Stato ma locandola ad altri, o disponendone nel modo che più gli aggrada come bene privato. Rispetto a una simile, molto probabile deriva, Guarino non sembra proporre adeguate contromisure. Egli sembra insomma disinteressarsi del destino della Fontana di Trevi. Nella sua ottica tutto appare subordinato al fatto che i soldi di Deciocavallo ci permetterebbero di convergere diligentemente verso l’obiettivo del 60 percento del debito sancito dal Trattato. In definitiva, seguendo integralmente la «proposta Guarino» ci si caccerebbe in guai ben peggiori di quelli di un elevato debito pubblico. Il modesto vantaggio derivante dalla riduzione della spesa per interessi verrebbe infatti più che compensato dai danni di una ulteriore privatizzazione. Una volta passata ai privati la proprietà di un bene statale, non c’è espediente giuridico che tenga: a quel punto, risulterebbe politicamente velleitario sperare di orientarne la gestione e il controllo a fini pubblici. Non saremmo dunque meravigliati di trovare in un prossimo futuro una convergenza bipartisan attorno a una soluzione di questo genere. I dogmi da rigettare Per la sinistra, tuttavia, ben altra è la strada da seguire. Essa deve partire dalla messa in discussione dei postulati del Trattato europeo, e in particolare dal rifiuto di sottostare all’indicazione di convergere al 60 percento del debito. questa la strada indicata dagli economisti sottoscrittori dell’appello per la stabilizzazione del debito pubblico. E in effetti, sotto l’impostazione dell’appello, alcune indicazioni dello stesso Guarino, opportunamente ridimensionate, potrebbero forse trovare una loro razionale collocazione. Esse potrebbero infatti rivelarsi funzionali non certo ad abbattere il debito pubblico, ma a cedere asset inutili e magari clientelari per sostituirli con asset strategici: insomma, lasciando invariato il rapporto debito/Pil, le risorse derivanti dalle vendite dei beni davvero superflui potrebbero contribuire ad aprire un varco finanziario per il rilancio delle nazionalizzazioni, un obiettivo che ci sembra stia a cuore agli stessi curatori del volume. Questa sarebbe in effetti una interessante combinazione di strumenti. Ma bisogna avere testa sgombra e sguardo lungo, senza nutrire troppe speranze riguardo all’immediato. La proposta di stabilizzare il debito pubblico e la connessa politica di rilancio delle partecipazioni pubbliche, Romano Prodi infatti le ha snobbate, e i risultati della sua esperienza di governo, strategici e di consenso, sono sotto i nostri occhi. Per la sinistra, dunque, si tratta ora di scegliere tra un’ancor più angusta subalternità politica, oppure una ferrea discussione interna in merito agli errori compiuti. Grazie ad essa, se non altro, si potrebbe imparare nuovamente a fare argine nei confronti di ricette di politica economica sbagliate, che ancora partono dall’acritica accettazione dei dogmi disposti ad arte dall’avversario. E gli argini in campo economico sono importanti. In fondo, è proprio dalla loro costruzione che hanno preso avvio le migliori battaglie per l’egemonia politica. EMILIANO BRANCACCIO ROSARIO PATALANO