Tuttoscienze 27 febbraio 2008, Maria Chiara Bonazzi, 27 febbraio 2008
Il Prozac? Solo un placebo. Tuttoscienze 27 febbraio 2008. Meglio la psicoterapia o l’esercizio fisico
Il Prozac? Solo un placebo. Tuttoscienze 27 febbraio 2008. Meglio la psicoterapia o l’esercizio fisico. In realtà gli antidepressivi aiutano, nel migliore de icasi, solo un piccolo sotto gruppo di pazienti molto gravi. Per ilresto, servono a ben poco, cioè il loro valore clinico non è granché superiore a quello di un placebo. Per dirla in soldoni, non funzionano. E’ il risultato di uno studio inglese, il più vasto nel suo genere, che ha acquisito dalla Food & Drug Administration americana i dati delle sperimentazioni cliniche finora mai pubblicati dalle case farmaceutiche e li ha messi a raffronto con quelli già disponibili. La ricerca, coordinata dal professor Irving Kirsch del dipartimento di psicologia dell’Università inglese di Hull in collaborazione con colleghi americani e canadesi, si è concentrata su quella classe di antidepressivi nota come «inibitori selettivi del riassorbimento della serotonina» (SSRI). Gli scienziati hanno riesaminato 47 sperimentazioni cliniche di sei sostanze, tra cui la fluoxetina (contenuta nel Prozac, il farmaco best seller assunto in 20 anni da 40 milioni di persone nel mondo), la paroxetina (leggi Seroxat) ma anche la venlafaxina, che agisce in modo simile (vedi Efexor). Lo studio, pubblicato dalla rivista PLoS (Public Library of Science), è stato definito «di fantastica importanza» negli ambienti scientifici britannici e fa scalpore nel momento in cui il ministro della Sanità, Alan Johnson, annuncia di voler migliorare il servizio pubblico di psicoterapia per evitare che i medici continuino a prescrivere gli antidepressivi come se fossero caramelle (31milioni di ricette nel solo 2006). Quando gli scienziati hanno confrontato i dati, inclusi, naturalmente, quelli già pubblicati, hanno sì notato un miglioramento nei pazienti, ma il miglioramento era paragonabile a quello dei pazienti che prendevano un placebo. Spiega Kirsch: «La differenza nel miglioramento dei pazienti che prendono i placebo e quelli che prendono gli antidepressivi non è poi così grande (due punti sui 51 della scala Hamilton per misurare la depressione, ndr). Significa che le persone depresse possono migliorare senza farmaci. Visti i risultati, si può concludere che ci sono poche ragioni per prescrivere queste pillole, se non ai pazienti più gravi, salvo il previo fallimento delle terapie alternative». Vale a dire che per i casi di depressione comune è meglio tentare prima la psicoterapia tradizionale o il cognitivismo/ comportamentismo o l’esercizio fisico: «Dalle sperimentazioni risulta che il risultato complessivo della nuova generazione di antidepressivi è sotto la soglia consigliata dei criteri clinicamente significativi», scrivono gli scienziati. Kirsch sottolinea, inoltre, la necessità di cambiare il sistema attuale, che permette alle case farmaceutiche di non pubblicare una parte dei dati delle loro sperimentazioni: «La frustrazione sta in questo - dice Kirsch -. Rende difficile deter- minare se i farmaci funzionino. Le case farmaceutiche dovrebbero essere obbligate, quando commercializzano un nuovo prodotto, a pubblicare tutti i dati». Stavolta, per accedere alle informazioni, gli scienziati si sono avvalsi del Freedom of Information Act, la legge sulla trasparenza. Gli scienziati sconsigliano comunque ai pazienti in cura di smettere di prendere gli antidepressivi senza consultare il medico. Ma intantoTim Kendall, vice direttore del dipartimento di ricerca del Royal College of Psychiatrists, si dice convinto che lo studio renderà d’ora in poi i medici «molto più cauti nel prescrivere gli antidepressivi». Le case farmaceutiche controbattono che le medicine sono efficaci. Eli Lilly, che fabbrica il Prozac, insiste che «dal ”72 la fluoxetina è uno dei farmaci più studiati e una mole di ricerche ha dimostrato che è efficace». GlaxoSmithKline, che produce il Seroxat, protesta che gli autori dello studio hanno omesso di notarne gli effetti «molto positivi» e le loro conclusioni sono «in contrasto con i benefici clinici riscontrati sui pazienti». Maria Chiara Bonazzi