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 2008  febbraio 27 Mercoledì calendario

Adesso mi daranno ragione. La Stampa 27 febbraio 2008. Ha detto: «Mi dispiace che siano morti». Come se in fondo non contasse molto, come se la vita avesse svolto il suo compito impietoso con i suoi figli, un tracciato lontano, senza emozioni, un inizio e una fine, e basta

Adesso mi daranno ragione. La Stampa 27 febbraio 2008. Ha detto: «Mi dispiace che siano morti». Come se in fondo non contasse molto, come se la vita avesse svolto il suo compito impietoso con i suoi figli, un tracciato lontano, senza emozioni, un inizio e una fine, e basta. Poteva durare di più, ma è andata così. Filippo Pappalardi è anche questo, negli occhi stretti che lo condannano alla sua ira fredda, alle sue parole avare, come quelle di un padrone antico, non di un padre. Ma poi ha aggiunto: «Adesso capiranno che non sono stato io». Ed è vero. Alla luce di questo ritrovamento nel palazzo sotterraneo di via Giovanni della Consolazione, con i corpi a 7 metri l’uno dall’altro, «forse morti di fame e di freddo», come ha subito precisato il medico legale della difesa Luigi Strada, riletta adesso, quella lunga ordinanza di 199 pagine che aveva mandato in carcere Filippo Pappalardi sembra soprattutto un processo morale, un triste coacervo di illazioni e pregiudizi. Lui non ha fatto una piega in carcere, freddo e distante, ha ripetuto che l’aveva sempre detto che non c’entrava nulla, che «è tutta colpa di questi stronzi dei giornali che mi hanno messo subito sulla croce, prima ancora della polizia e dei magistrati», e che se sta vivendo «questo incubo, devo dire grazie a chi so io. Quella donna, la mia ex moglie, mi ha sulla coscienza». Ma la verità è anche che niente adesso lascia ragionevolmente pensare a un omicidio ideato e realizzato da quest’uomo. Come avrebbe fatto? Li avrebbe buttati in una cisterna nel centro della città e li avrebbe lasciati morire lì mentre avvisava la polizia e li cercava? E’ che c’è qualcosa di così difficile da decifrare in questa storia, qualcosa di Gadda del pasticciaccio, estratti di una periferia cinica, tanto brutale quanto sconosciuta, ignorante e innocente e insieme. Solo che è in questa contraddizione che ci siamo persi. Ed è la stessa contraddizione che ha marchiato Filippo Pappalardi dall’inizio, quando diceva in casa alla sua figliastra Carmela appena 10 giorni dopo la scomparsa di Francesco e Salvatore «E’ me che vogliono acchiappare», quando la scena di questi giorni, con i due piccoli scheletri ricoperti di muffe era ancora una paura lontana, soltanto una fantasia dell’orrore. La stessa contraddizione che gli fa fare la prima telefonata («dove sono i miei figli?») proprio da questo piccolo bar dove siamo noi adesso, a 5 metri appena dal luogo dove sono stati ritrovati i corpicini mummificati dei suoi figli. Una terribile coincidenza? E’ la stessa coincidenza della vita: «Mi dispiace che siano morti», come ha detto lui. Ma le coincidenze della vita sono tragiche, sono eventi che stritolano la nostra piccola esistenza con il capriccio degli dei. Dal carcere di Velletri, nella sezione Protetti dov’è rinchiuso per essere salvato dall’ira degli altri detenuti che reputano il suo delitto infame, lui non sembra averne colto il pericolo. «Apparentemente tranquillo, non tradisce la minima emozione neanche dopo aver appreso la notizia dalla tv»: così l’hanno descritto quelli che l’hanno visto in questi giorni fra le mura del «reparto C». Lui dice: «Ho sempre detto che non ero io. Adesso gli inquirenti potranno provare la mia innocenza». Nella sua freddezza, è un ottimista. Quando l’avevano arrestato aveva detto: «Esco fra due giorni». Era metà novembre. Dice che «ora lo dovranno ascoltare, finalmente. Hanno cercato me, invece che la verità». Era la convinzione che s’era fatta dall’inizio: «E’ me che vogliono acchiappare». Nel gioco delle carte, quella sua paura era diventata l’arma dell’accusa. Chi ha questo timore è un colpevole, insinua l’ordinanza, con orrendo giustizialismo. Alla tv, il 7 giugno, due giorni dopo la scomparsa dei figli, aveva lanciato un appello: «Tornate a casa. Non vi faccio niente! Non ho mai fatto niente ai bambini». E nell’ordinanza si chiedono: perché sente il bisogno di precisarlo? Il fatto è che lo smentiva prima Salvatore Angelotti, il direttore della comunità «Il sipario», dove per un certo periodo erano finiti i due fratellini: «Il padre era molto rigido, e loro mi dicevano spesso che venivano picchiati da lui». E poi un consulente del Tribunale dei minorenni che lo descriveva come «una persona sempre sulla difensiva», che «contiene la forte aggressività latente». Il problema è questo: basta una personalità spiacevole, volgare, violenta, un camionista dai modi spicci e ignoranti, per farlo salire sul banco degli imputati? Sull’ordinanza c’è anche scritto che «l’ipotesi di duplice e contemporanea disgrazia appariva scarsamente probabile, dato che... Gravina di Puglia non è un comune d’alta montagna... e se i due fratelli fossero caduti in un pozzo, prima o poi il suo proprietario l’avrebbe ispezionato, dando l’allarme, ... mentre tutta la zona limitrofa al comune di Gravina è stata battuta in lunga e in largo... e ha visto centinaia di cani e cacciatori intenti a perlustrare in ogni dove senza che nulla apparisse mai». Il pozzo che nascondeva Francesco e Salvatore era a pochi metri da piazza delle 4 fontane, dove erano stati visti l’ultima volta, a pochi metri dalla casa dell’amico, il figlio della Mastrorillo, dove il papà era andato a cercarli, e di fronte al bar dove aveva fatto la prima telefonata. Erano lì e loro cercavano fuori. Ma in queste poche righe c’è dell’altro, la verità e il suo opposto, la tragedia che noi non abbiamo mai capito, affondata in questa miseria ottocentesca, morale e sociale, di certi ambienti, questa miseria che ha nascosto anche l’innocenza e le colpe della sua gente. Sono altre, molto lontane dalla nostra comprensione. Così, il padre violento che dice al giornalista «eh violento, e dobbiamo vedere! Se poi io ai bambini gli devo far fare cosa vogliono loro, è un altro discorso, e se poi i figli li lasciamo per strada, se vuoi andare a scuola vai, se non vuoi no, io così non ci sto»; il marito cattivo, che dopo la notte della scomparsa è andato tranquillamente al lavoro come se nulla fosse successo (pagina 168), quell’uomo probabilmente non c’entra niente, e dovremo farcene una ragione. O forse c’entra solo in maniera diversa: testimone di una disgrazia e in colpa per questo? E’ una domanda che fa parte di tutta questa contraddizione, come quella che si pone lui, dal carcere: «Perché non li hanno mai cercati in quel pozzo? Eppure l’ultima volta i miei bambini sono stati visti lì vicino?». Se lo chiede prima di difendersi di nuovo: «Io non so che posto fosse quello, non ne sapevo neppure l’esistenza. E se i bambini giocavano là, non è certo colpa mia». PIERANGELO SAPEGNO