Corriere della Sera 28 febbraio 2008, Sergio Romano, 28 febbraio 2008
LA STORIA FATTA CON I SE
Corriere della Sera 28 febbraio 2008.
Nel suo libro «I giudizi della storia», lei si ritagliava una parte finale in cui esercitarsi in ipotesi di storia controfattuale o ucronica.
Bene, a costo di essere provocatorio, le chiedo: può costruire un’ipotesi storica controfattuale per quanto riguarda l’Iraq del 2008? Mi spiego meglio: se gli Usa non avessero liberato quel Paese da uno dei tiranni più sanguinari del globo, oggi quel Paese in che condizioni umanitarie si troverebbe? La risposta che le chiedo è una risposta già depurata dalle varie considerazioni contrarie alla guerra, quali quelle secondo cui la guerra è stata una guerra per il petrolio, o per insediare una presenza permanente Usa in quella regione, ovvero quella secondo cui il tirannicidio sarebbe dovuto avvenire in occasione della prima guerra del Golfo.
Massimo Bassetti
adrepans@libero.it Caro Bassetti,
Ricordo ai lettori che la storiografia controfattuale è quella in cui l’autore suppone che un evento importante non sia accaduto e cerca di immaginare quale effetto questo diverso corso della storia avrebbe avuto sulle vicende successive. Non bisogna dimenticare tuttavia che la rimozione di una pietra può modificare l’equilibrio di un intero palazzo e che non sarebbe giusto quindi concentrare la propria attenzione su una sola possibile conseguenza (nel caso della sua lettera il rispetto dei diritti umani in Iraq). Occorre allargare lo sguardo al maggior numero di possibili conseguenze. Mi spiegherò meglio cercando di fare quello che lei mi chiede. Ecco ciò che uno storico del 2050 potrebbe scrivere: «La riunione del mattino alla Casa Bianca, il 10 marzo 2003, cominciò puntualmente alle 7.30. Bush disse una preghiera, come era solito fare, ma rimase a lungo con gli occhi fissi sul foglio bianco che gli serviva per prendere appunti. Quando li rialzò, guardò anzitutto il vicepresidente Dick Cheney e disse che una voce, quella notte, aveva parlato alla sua coscienza. "Mi ha detto, aggiunse, che vi sono circostanze in cui il Male può essere usato per meglio raggiungere gli scopi del Bene e che Saddam Hussein potrebbe essere in questo momento il nostro migliore alleato". Spostò lo sguardo su Donald Rumsfeld, l’uomo che aveva incontrato Saddam durante la guerra Iran-Iraq quando gli Stati Uniti appoggiavano Bagdad contro Teheran. Toccava a lui, disse, tornare nella capitale irachena e proporre un accordo.
«L’intesa fu raggiunta tre settimane dopo. L’America avrebbe revocato tutte le sanzioni decise dopo l’occupazione dell’Iraq e della Guerra del Golfo. L’Iraq avrebbe messo i suoi servizi d’intelligence a disposizione della Cia per snidare ed eliminare le cellule di Al Qaeda nel mondo arabo musulmano. Gli Stati Uniti non avrebbero cercato d’interferire nella politica irachena e avrebbero interrotto i loro contatti con gli esuli iracheni a Washington. Ma Saddam si sarebbe impegnato a "rispettare" (una parola un po’ troppo generica, ma adottata dopo lunghi negoziati) i diritti degli sciiti e dei curdi. Gli Stati Uniti avrebbero fornito armi moderne alle forze armate irachene, ma Saddam avrebbe aperto agli ispettori dell’Onu le porte di tutte le installazioni militari e scientifiche del Paese non ancora ispezionate.
«I risultati dell’accordo non tardarono a manifestarsi. Sei mesi dopo gli americani avevano messo le mani su molti pericolosi terroristi in Egitto, Marocco, Siria, Giordania, Pakistan. La revoca dell’embargo sul petrolio rese immediatamente operanti i contratti che il regime di Saddam aveva stipulato negli anni precedenti, soprattutto con la Russia e la Francia. Altri contratti, nei mesi seguenti, vennero conclusi con l’Italia, la Germania, la Cina e il Giappone. La produzione triplicò nel giro di un anno e mezzo e l’Iraq inondò il mercato con quantitativi crescenti di greggio che ebbero l’effetto di ridurre considerevolmente il prezzo internazionale del barile. Quando fu chiaro che occorreva modernizzare le infrastrutture petrolifere del Paese, i capitali stranieri, attirati dalla prospettiva di buoni affari, permisero l’apertura di dozzine di cantieri. La disoccupazione diminuì drasticamente, il Paese assorbì mano d’opera straniera, soprattutto palestinese. La crescita economica favorì la nascita di un nuova borghesia, aperta all’influenza dell’Occidente, sensibile ai richiami della democrazia. Negli anni seguenti le principali città del-l’Iraq divennero ancora più laiche e multireligiose: ristoranti, club, palestre, circoli associativi in cui uomini e donne, iracheni e stranieri potevano sedere allo stesso tavolo. La minoranza cristiana si rafforzò e divenne, in alcuni settori, la spina dorsale del Paese.
«Mentre l’Iraq diventava un’oasi di stabilità, la situazione dell’Afghanistan stava peggiorando e i talebani cominciavano a riconquistare il territorio perduto. Durante un’altra riunione del mattino alla Casa Bianca, Bush disse che l’America non poteva permettersi di restituire il Paese agli alleati di Al Qaeda. Chiese a Rumsfeld: "Quanti uomini stavamo per mandare in Iraq?". Il segretario della Difesa rispose: "150.000". Bush rimase in silenzio per qualche minuto, forse in attesa della "voce", e disse finalmente: "Mandiamoli in Afghanistan"».
Questo avrebbero letto i nostri nipoti nel 2050.
Sergio Romano