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 2008  febbraio 28 Giovedì calendario

Cina, i salari degli operai si impennano. La Repubblica 28 febbraio 2008. Qualcosa sta cambiando nella condizione della classe operaia cinese

Cina, i salari degli operai si impennano. La Repubblica 28 febbraio 2008. Qualcosa sta cambiando nella condizione della classe operaia cinese. La conferma è arrivata dopo il Capodanno lunare. Finite le vacanze come ogni anno si è aperta la fiera delle assunzioni a Guangzhou (ex Canton), la metropoli più sviluppata nella regione meridionale del Guangdong. L´hanno battezzata Job Fair, in realtà ricorda il fenomeno del caporalato: è un mercato all´ingrosso delle braccia, dove i capireparto delle fabbriche vanno a reclutare lavoratori immigrati dalle campagne. Stavolta però la Job Fair era quasi deserta. Più di tremila posti di lavoro sono rimasti scoperti per mancanza di operai. Eppure le autorità provinciali del Guangdong avevano appena alzato il salario minimo di un robusto +13%. Ma ormai pochi accettano il minimo contrattuale. Lungo il delta del fiume delle Perle, tra Guangzhou, Shenzhen e Dongguan, il boom cinese ha portato la piena occupazione. Anche se non esiste il diritto di sciopero, né un sindacato libero come nei paesi occidentali, la legge della domanda e dell´offerta gioca in favore degli operai. Le imprese si contendono la manodopera qualificata con aumenti salariali che raggiungono punte del 100% in un anno. Proprio mentre la loro forza contrattuale migliora sul mercato, i lavoratori hanno ricevuto anche un aiuto dall´alto. Preoccupato per la stabilità sociale, dall´inizio dell´anno il regime di Pechino ha varato una sorta di Statuto dei lavoratori: rende meno facili i licenziamenti, impone delle liquidazioni di buonuscita, obbliga al pagamento degli straordinari. Non è una rivoluzione, e resta da verificare quanti imprenditori riusciranno a evadere nel sommerso comprando la complicità delle autorità locali. Ma è un segnale che il vento sta girando. Da Hong Kong sono già partite vibrate proteste delle imprese. Ai tempi in cui era ancora una colonia britannica, i capitalisti dell´isola erano stati veloci ad accogliere l´invito di Deng Xiaoping: «Arricchirsi è glorioso». Negli anni 80 la Repubblica popolare iniziò la transizione verso l´economia di mercato proprio creando delle "zone speciali" nella Cina meridionale, porti franchi per gli investimenti stranieri. Gli industriali di Hong Kong invasero per primi il vicino Guangdong per aprirvi nuovi capannoni e sfruttare il basso costo della manodopera. Oggi almeno 70.000 imprese del Guangdong sono controllate da capitalisti di Hong Kong, che hanno conservato una relativa autonomia, i loro organi associativi, e libertà di parola. Paul Yin, proprietario di un´impresa metallurgica a Shenzhen e presidente della Confindustria di Hong Kong, ha lanciato l´allarme: «I costi di produzione nelle nostre fabbriche cinesi sono saliti del 30 - 40%. La nuova legge del lavoro è una bomba a orologeria. I margini di profitto si assottigliano». Shi Kai-biu, che rappresenta le piccole e medie imprese, fa previsioni catastrofiche: «Entro pochi mesi potrebbero chiudere 10.000 delle nostre associate». I toni possono sembrare esagerati ma un´indagine compiuta dal Wto Research Institute arriva a conclusioni simili. Tra gli imprenditori di Hong Kong il 62% denuncia costi crescenti nella Repubblica popolare, l´11% teme di dover chiudere i battenti. «E´ uno tsunami», commenta Lam Kwong-tak, chief executive del più grosso calzaturificio della Cina meridionale, il gruppo Onlen Fairyland. «In 30 anni di carriera non avevo affrontato una sfida simile. Le nuove regole varate dal governo mi rincarano di un euro il costo del lavoro su ogni paio di scarpe, proprio mentre salgono anche i costi delle materie prime e la domanda americana rallenta». Nella zona di Dongguang il 15% delle aziende nel settore calzaturiero ha già chiuso. Se il Guangdong non è più la Bengodi dei capitalisti per lo sfruttamento selvaggio della forza lavoro, è ancora presto per descriverlo come un paradiso della classe operaia. I differenziali salariali rispetto all´Occidente rimangono formidabili. Nel settore automobilistico il lavoro di un metalmeccanico tedesco costa 37 dollari all´ora contro un dollaro e 40 centesimi per il suo omologo cinese (naturalmente anche il costo della vita è molto più basso in Cina). L´aumento salariale cinese risponde a una logica economica: vengono eliminate le imprese più inefficienti. La stessa riforma del diritto del lavoro rientra in una strategia industriale di lungo periodo. I tecnocrati di Pechino vogliono che l´industria cinese si sposti su produzioni a più alto contenuto tecnologico, anziché rimanere inchiodata nei settori come il tessile-abbigliamento. Ding Li, esperto dell´Accademia delle Scienze sociali a Pechino, conferma questa ambizione: «La regione del delta delle Perle ormai può puntare all´eccellenza e pagare salari più alti. Le imprese deboli devono chiudere o spostarsi altrove». Spostarsi altrove? Dopo esserne state beneficiate per decenni, le regioni sviluppate della Cina possono diventare a loro volta le "vittime" della delocalizzazione. La Hon Hai Precision Industry, colosso informatico del Guangdong che assembla personal computer per conto di Apple e Hewlett-Packard, ha deciso di investire 5 miliardi di dollari per aprire nuove fabbriche in Vietnam, dove il costo del lavoro è la metà di quello cinese. India, Bangladesh, Pakistan e Indonesia sono le mète predilette dei calzaturieri in fuga dal Guangdong per i rialzi salariali. Un´altra opzione per gli imprenditori è spostarsi nelle regioni interne della Cina, dove è disponibile un "esercito di riserva" di centinaia di milioni di contadini poveri, disposti a lavorare per salari molto inferiori. Ma non è così semplice abbandonare le fasce costiere della Cina: hanno un´efficienza competitiva fatta di molti ingredienti. Tom Nelson che gestisce gli approvvigionamenti dei marchi North Face e Nautica punta l´indice sui tempi di trasporto: grazie agli scali portacontainer di Shanghai e Shenzhen, i vestiti made in China arrivano nei grandi magazzini americani in 20 giorni; dal Bangladesh ce ne mettono 45. Anche la qualità della manodopera ha il suo peso. Willy Lin, produttore della bianchieria intima Milos, non è certo di poter trasferire la sua fabbrica a sei ore di distanza nell´entroterra cinese: «Ho bisogno di mani accurate e precise, non sono sicuro che dei contadini possano maneggiare i miei macchinari». FEDERICO RAMPINI