Il Manifesto 28 febbraio 2008, CAROLA FREDIANI, 28 febbraio 2008
L’invasione degli ultra-piccoli. Il Manifesto 28 febbraio 2008. Nell’infinitamente piccolo sono riposte grandi speranze
L’invasione degli ultra-piccoli. Il Manifesto 28 febbraio 2008. Nell’infinitamente piccolo sono riposte grandi speranze. Come quelle dei ricercatori che provano a usare strutture di minuscole particelle per trasportare una terapia direttamente nelle cellule tumorali, senza danneggiare la parte sana. O quelle di chi sta costruendo, grazie a microscopici pezzetti di silice, contenitori autoigienizzanti, capaci di purificare l’acqua in aree della terra dove si muore per dissenteria. Le promesse della nanotecnologia - la manipolazione della materia su dimensioni atomiche o molecolari - mirano alto; le sue ricadute di mercato, tuttavia, sono finora molto più prosaiche. Talvolta anche un po’ gratuite. A infarcire la lista del "mai più senza" arrivano infatti orsetti di peluche che incorporano nanoparticelle d’argento per combattere batteri e acari; o creme per la pelle composte da nanoparti di ossido di zinco; o ancora, asciugamani e calzini di cotone infusi da miliardi di particelle d’argento per fare in modo che non puzzino... A stilare l’elenco ci ha pensato The Project on Emerging Nanotechnologies, che ha individuato più di 500 prodotti, contenenti nanotecnologie, commercializzati negli Stati Uniti: dalle creme solari alle stoviglie, dai microprocessori alle bevande e confezioni alimentari. Perché il punto è proprio questo: mentre l’industria nanotech sta crescendo a ritmi vertiginosi, riempiendo silenziosamente gli scaffali coi suoi prodotti, ancora poco si sa dei rischi collegati, vale a dire dell’impatto sull’ambiente e sulla salute umana dei "nanocosi". Non si tratta di fobie immotivate: su scala di pochi nanometri, ovvero di pochi milionesimi di millimetro (che corrisponde a quanto si allunga un’unghia in un secondo), le particelle assumono proprietà diverse rispetto alla materia da cui sono state prodotte. Ragione per cui sono così interessanti ma anche alquanto imprevedibili. L’industria sembra esserne consapevole, memore forse del campo di battaglia che ha fiaccato le aziende di Ogm, tanto che alcuni ricercatori stanno lanciando un appello al governo Usa affinché adotti degli standard di sicurezza. E’ il caso del tossicologo Dave Hobson, della società nanoTox, che ha chiesto di investigare più a fondo sui potenziali pericoli di queste sostanze «prima che avvenga qualche evento catastrofico». «Mi sembra che il settore nanotech si ponga di più la questione della sicurezza rispetto a quanto accaduto nel biotech», commenta al manifesto la giornalista scientifica Denise Caruso, che nel libro Intervention ha denunciato l’incapacità dell’ingegneria genetica di valutare i pericoli e l’impatto dei propri prodotti. «Il problema è che la stessa consapevolezza manca al governo americano, che non finanzia abbastanza la ricerca sui rischi». E’ vero infatti che lo scorso anno l’amministrazione Bush ha investito 1,4 miliardi di dollari nello sviluppo del settore nano; ma di questa cifra solo una porzione minima, tra l’1 e il 4 per cento, è stata utilizzata per indagarne gli effetti ambientali. Come se non bastasse, a complicare lo scenario arriva ora una ricerca dell’università del Wisconsin secondo la quali molti statunitensi, forse per motivi religiosi, riterrebbero le nanotecnologie «moralmente inaccettabili»; al contrario gli europei, che pure sono tradizionalmente molto più sospettosi sul fronte Ogm, si dimostrerebbero più tolleranti. Le due sponde dell’Atlantico si sono dunque scambiate le parti? Sarà il Vecchio continente a prendere in mano le redini della prossima rivoluzione tecnologica? «Il problema è un altro - obietta Caruso - ed è che la maggior parte degli americani non sa di cosa si sta parlando». Non che gli europei, e gli abitanti dello Stivale, siano messi meglio: secondo una ricerca di Polis 2000, l’83 per cento degli italiani afferma di non sapere nulla di questo settore. La Commissione Ue ha dunque deciso di muoversi d’anticipo, e all’inizio di febbraio, dopo una consultazione pubblica, ha elaborato un apposito codice di condotta, che prevede tra le altre cose la responsabilità dei centri di ricerca per eventuali "incidenti". Peccato solo che queste disposizioni non siano obbligatorie, bensì del tutto volontarie. E’ un passo nella direzione giusta ma non è abbastanza», dichiara al manifesto Alexandra Waudel, di Friends of the Earth Europe (FoEE), che l’11 marzo pubblicherà un rapporto sugli alimenti "arricchiti" di nanoparticelle già presenti sul mercato europeo. «I consumatori sono esposti a queste sostanze attraverso molti prodotti, senza che siano state condotte ricerche adeguate. Tanto più che non esiste un sistema di etichettatura». Che, da parte della politica, potrebbe essere proprio il passo successivo. CAROLA FREDIANI