Sergio Romano, Corriere della Sera 24/2/200, pagina 31., 1 marzo 2008
Corriere della Sera, domenica 24 febbraio Scrivo in merito al difficile momento che sta attraversando il dialogo fra gli Ebrei e la Chiesa cattolica
Corriere della Sera, domenica 24 febbraio Scrivo in merito al difficile momento che sta attraversando il dialogo fra gli Ebrei e la Chiesa cattolica. Il ritorno alla messa in latino con la frase sul «pentimento/ conversione» degli ebrei è un passo indietro di molti decenni, a prima del Vaticano II. Penso anche che l’attuale Curia romana si stia arroccando sul passato, non privilegiando più il dialogo con altre religioni. Ho anche l’idea, forse sbagliata, che se il cardinale Carlo Maria Martini fosse diventato Papa queste cose non sarebbero successe. La Diocesi di Milano incoraggiava il dialogo con incontri, seminari, eccetera. Viviamo ormai in una società multirazziale e multiculturale, con diverse religioni e secondo me non ha senso che una religione voglia essere superiore alle altre. La Chiesa cattolica si sta comportando, sempre secondo me, come se ancora fosse l’unica religione di Stato. Emanuela Bassan emanuelabassan@libero.it Cara Signora, Non sono teologo, filosofo, storico delle religioni ed esperto di problemi ecclesiastici. Le darò quindi una risposta che a molti forse sembrerà troppo sommaria, semplicistica e pragmatica. Credo che sia inutile, per un «esterno», chiedere a una Chiesa di rinunciare ai propri principi. La Chiesa romana si definisce «apostolica», vale a dire diretta erede di quei discepoli a cui Cristo chiese di propagare nel mondo la notizia della sua venuta. Si considera depositaria di un messaggio divino, titolare di una missione terrena; ed è convinta, suppongo, che mancherebbe ai suoi doveri se non facesse del suo meglio per trasmettere al mondo la «luce» della verità rivelata. Le forme e lo stile di questa missione possono variare da un Papa all’altro e dipendono sostanzialmente dal modo in cui ciascuno di essi decide di affrontare le sfide dell’ambiente in cui deve operare. Ma sarei sorpreso se dietro certi eventi multiculturali e certe aperture al dialogo non vi fosse il desiderio di creare un’atmosfera propizia all’ «illuminazione». Martini sarebbe stato diverso da Ratzinger, ma non sarebbe stato meno «apostolico». Il dialogo con le altre religioni è influenzato dai modi e dalle convinzioni del pontefice regnante. Ma credo che la Chiesa romana possa essere schiettamente ecumenica soltanto con la Chiesa ortodossa, con cui ha soltanto un contenzioso politico- dinastico: il primato del vescovo di Roma su quello di Costantinopoli. Il suo ecumenismo, quando parla con la Chiese riformate, è soltanto diplomazia. Il rapporto con gli ebrei è ancora più complicato di quanto non sia quello con i discendenti di Lutero. La Chiesa non può smettere di augurarsi la conversione del popolo con cui Dio strinse sul Sinai la sua prima Alleanza. E non può smettere di pensare che la tenacia con cui questo popolo rifiuta di riconoscere l’esistenza di una seconda Alleanza, sia contemporaneamente un grave errore e una minaccia alla credibilità del messaggio cristiano. Nessun dialogo e nessuna visita del Pontefice alla grande sinagoga di Roma potrà mai alterare i termini di un contrasto che può riassumersi così: se gli ebrei hanno ragione, la Chiesa ha torto; se la Chiesa ha ragione, gli ebrei hanno torto. L’incontro è reso difficile anche dall’esistenza fra i dialoganti di una fondamentale differenza: la Chiesa vive soltanto se persuade e convince, mentre l’ebraismo, con qualche comprensibile motivo, vede in ogni tentativo di conversione l’ombra della giudeofobia e dell’antisemitismo. Vi è infine un’altra ragione per cui certe critiche alla Chiesa romana mi sembrano poco opportune. Chi chiede alla Chiesa di modificare la sua strategia dimentica implicitamente le responsabilità dello Stato. Come cittadini noi non abbiamo il diritto di pretendere che la Chiesa sia diversa da ciò che è. Ma abbiamo il diritto di pretendere che la sua ansia di conversione non turbi gli equilibri della società, che il suo insegnamento non entri in rotta di collisione con quello di altre confessioni religiose, che i suoi sacerdoti non si avvalgano della loro autorità spirituale per influire sui comportamenti politici dei fedeli. Chi pretende troppo dalla Chiesa finisce per pretendere poco dallo Stato. Sergio Romano