varie, 29 febbraio 2008
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FERRARA Napoleone Catania 26 luglio 1956. «Sul suo biglietto da visita c’è scritto ”Research drug discovery”
FERRARA Napoleone Catania 26 luglio 1956. «Sul suo biglietto da visita c’è scritto ”Research drug discovery”. La traduzione in italiano vuole un lungo giro di parole che suona più o meno così: ”Sperimentatore di nuove strade terapeutiche”. Nella realtà dei laboratori, vuol dire ricercatore di terapie per il futuro. Da noi, una qualifica così, praticamente non esiste. Perché il ”mestiere” di ricercatore non ha riconoscimento che trova, invece, in altri paesi. In Europa e negli Stati Uniti dove, nel 1983, è arrivato, da Catania, Napoleone Ferrara. Medico ricercatore classe 1956 è partito dall’Italia come giovanissimo specializzando in ginecologia, ha fatto la sua carriera all’università della California, San Francisco, e poi si è trasferito nel privato, alla più grande industria biotecnologica del mondo, la Genentech. [...] A lui si deve, nel 1989, la purificazione e clonazione in laboratorio del fattore di crescita vascolare endoteliale (VEGF). La proteiena che stimola la crescita, la sopravvivenza e la riparazione dei vasi sanguigni. Nei pazienti il tumore rilascia questa proteina responsabile della crescita dei nuovi vasi sanguigni. Parla poco Napoleone Ferrara, frasi brevi e risposte secche. un vero ”scopritore”, è un maestro per migliaia di giovani ricercatori ma, da lui traspare solo la passione scevra da vanità e voglia di apparire. A sentirlo e a vederlo, schivo com’è, non si direbbe mai che al suo lavoro si deve il primo farmaco antiangiogenico (ferma la riproduzione dei vasi sanguigni) utilizzato, ormai da tre anni, contro il cancro al seno, al colon, al rene e al polmone. ”Con questa nuova arma siamo riusciti a prevenire il collegamento del tumore con i vasi sanguigni circostanti. In questo modo ”affamiamo’ il cancro e lo lasciamo senza rifornimento di sangue”. [...] Se fosse rimasto in Italia sarebbe potuto arrivare così in alto? ”Chissà, forse. Forse no. vero, infatti, che dove sono andato ci sono maggiori possibilità di farsi strada. Soprattutto se hai voglia di lavorare in laboratorio almeno sei giorni su sette”. Vuol dire che negli Stati Uniti c’è maggiore rispetto per il merito e per i risultati raggiunti? ”Questo è sicuro. Qui il desiderio di lavorare c’è, c’è anche la conoscenza e la preparazione ma i limiti amministrativi rallentano la ricerca. Comunque, non mi sento di essere troppo negativo nei confronti del laboratorio Italia […]”» (Carla Massi, ”Il Messaggero” 14/10/2007).