La Repubblica 20 febbraio 2008, Bernardo Valli, 20 febbraio 2008
Dall´epopea della Baia dei Porci. La Repubblica 20 febbraio 2008. PER un cronista, nell´aprile del 1961, c´era molto da fare a Cuba
Dall´epopea della Baia dei Porci. La Repubblica 20 febbraio 2008. PER un cronista, nell´aprile del 1961, c´era molto da fare a Cuba. Adesso che il vecchio malandato Fidel sembra volersi ritirare a vita privata, mi ritornano tante immagini. Ero in Argentina quando, quarantasette anni fa, gli anticastristi sbarcarono nella Baia dei Porci. Raggiunto il Messico riuscii a prendere un areo per l´Avana. Era il primo volo da quando era scattata l´operazione "Must go" preparata dalla Cia allora diretta da Allen Dulles, il cui obiettivo era di rovesciare Fidel Castro. Tutta l´America Latina era in agitazione. A Città del Messico i carabineros stentavano ad arginare le manifestazioni in cui si bruciavano le bandiere yankee e i pupazzi raffiguranti lo Zio Sam. Nessuno aveva dubbi. Amici o nemici di Fidel vedevano nello sbarco degli anticastristi a Cuba una replica di quel che era accaduto nel ”54 in Guatemala. E questo indignava un po´ tutti. Sette anni prima, con l´operazione «Master Plan», la C. I. A. aveva infatti adottato la stessa tecnica. Aveva addestrato e gettato nella mischia degli esuli guatemaltechi per scalzare dal potere il colonnello Jacobo Arbenz Guzman, il presidente democraticamente eletto, sospettato di comunismo, e comunque sul punto di promuovere una riforma agraria sgradita all´United Fruit, l´allora onnipotente società nordamericana cui era riservato il monopolio delle banane. Ad addestrare anni dopo gli esuli cubani in appositi campi del Guatemala e del Nicaragua era stata l´amministrazione Eisenhower. Kennedy aveva ereditato il progetto ed aveva esitato a lungo prima di realizzarlo. L´annuncio, poi rivelatosi infondato, dell´imminente arrivo di 180 jets sovietici fece scattare l´attacco. Nel ”54, in Guatemala, si era parlato di armi cecoslovacche, mai arrivate, a Porto Barrios. Al contrario dell´operazione «Master Plan», quella battezzata «Must Go» non funzionò. A Cuba fu un fallimento. Un disastro. Ad aspettarci ai piedi dell´aereo atterrato all´Avana c´era un´orchestra che suonava un cha-cha-cha e prima ancora di controllare i nostri passaporti i poliziotti ci offrirono ottimi «daiquiri». Dagli altoparlanti usciva la potente voce di Fidel che giudicava davanti alla folla gli anticastristi appena catturati. «Che ne facciamo?» chiedeva alla gente. La risposta corale era severa: «Al muro». In realtà non pochi dei millecinquecento prigionieri furono poi scambiati con dei trattori. I barbudos intervenuti nella Baia dei Porci, subito dopo lo sbarco, ne avevano ucciso circa cinquecento. Non solo Cuba festeggiava la vittoria sui controrivoluzionari ma si preparava a celebrare la proclamazione della Repubblica socialista. Nei giorni successivi vidi spesso Fidel Castro in carne ed ossa. Ci fu un banchetto sulla piazza davanti alla cattedrale con centinaia di invitati. E lui era presente e di ottimo umore. Cosi lo descrissi («radioso») a chi mi telefonava dall´Italia per chiedermi se L´Avana era in fiamme come annunciavano i giornali delusi dal fallito sbarco. Alla sfilata che poi scandì la nascita della repubblica socialista Fidel mi sembrò un colosso trionfante. Al suo fianco «Che» Guevara era come un monaco travestito da guerrigliero. Alla parata partecipavano anche unità di miliziane, molte delle quali camminavano come se fossero in passerella. Un´impressione accentuata dal fatto che le camicette non erano del tutto abbottonate. Nei pressi della Baia dei Porci, dove si arrivava in taxi, continuava la caccia ai controrivoluzionari sfuggiti alla cattura; e i barbudos euforici posavano volentieri per i fotografi; per una stecca di sigarette mimavano un combattimento. Le colonne militari incrociavano le ragazze e i ragazzi impegnati nella campagna di alfabetizzazione tra i contadini. All´Avana gli ultimi gringos affollavano ancora i tavoli della roulette, all´Hotel Capri e all´Hotel National, dove i croupiers erano in divisa da miliziani. Nei bar c´erano le ultime prostitute (qualche decennio dopo sarebbero ritornate in forza) che si massaggiavano i piedi gonfi per il troppo camminare. Non c´erano più turisti. Quindi neanche clienti. In albergo la centralinista rispondeva scandendo «patria o muerte». Un´amica, Saharita Khoury, non sapeva se piangere o esultare. Mi accompagnava nei club un tempo riservati ai ricchi bianchi, a quelli della sua classe sociale, e da poco aperti a tutti i cubani, senza distinzione. Lei passava dalle lacrime a improvvisi scoppi d´allegria. Guardava con dolore la sua spiaggia violata da una folla che seminava cartacce unte e bottiglie vuote, e al tempo stesso le piaceva quello spettacolo popolare tanto ricco di significati. Saharita era una segretaria di Raoul Castro, il fratello di Fidel (ed ora il suo probabile successore), e la cognata di Raoul Roa, il ministro degli Esteri. Apparteneva a una grande famiglia borghese divisa tra rivoluzione e controrivoluzione. Lei imbocco´ poi quest´ultima strada, poiché si è rifugiata negli Stati Uniti. Questo è lo spontaneo ricordo della Cuba dell´aprile ”61, quando Fidel era ai suoi primi passi come depositario di un potere, poi durato troppo a lungo per non conoscere le variabili degenerazioni di una dittatura. Già allora le carceri erano gremite. Già allora si potevano notare i sintomi, anzi le evidenti tracce, della dittatura che per decenni avrebbe stretto l´isola in una morsa. Una morsa in cui l´ideologia unica, per sua natura intollerante, il carisma personale, quindi lo strapotere, la polizia, quindi il sopruso, ma anche l´orgoglio, si sono confusi e continuano a confondersi. Senza dimenticare la storia, da cui nasce un forte nazionalismo, spesso naturale patriottismo. Una storia legata, in maniera al tempo stesso intima e conflittuale, a quella del vicino grande impero. Di allora mi resta anzitutto la fresca immagine di Fidel Castro, di Ernesto «Che» Guevara e di Camillo Cienfuegos, tre facce giovani riunite in un grande ritratto, espressione di una rivoluzione che sembrava diversa dalle altre. Ma che non lo è stata abbastanza. Nel ”65, quando ritornai all´Avana, tutto si era appannato. I prigionieri erano ventimila. Tutti coloro che si erano opposti alla svolta imposta da Fidel erano in carcere o erano in esilio, se erano riusciti a sfuggire alla repressione. Era in corso una campagna contro gli omosessuali. Il mio amico Saverio Tutino, corrispondente de l´Unità e di Le Monde, aveva apertamente denunciato la persecuzione degli intellettuali. A partire dal 1º gennaio 1959, dopo una guerriglia di tre anni, Cuba aveva conosciuto profonde trasformazioni sociali. Era stata promossa una decisa lotta alla corruzione, alla mafia, alla prostituzione. Era stata abolita la segregazione razziale (ancora di fatto esistente negli Stati Uniti). Era stato proibito il lavoro infantile; era stata cancellata la mendicità; era stata avviata un´alfabetizzazione destinata a sfociare in una scolarizzazione universale; ed era stato tracciato un sistema di assistenza medica (che ancora oggi si distingue da quelli esistenti nel resto dell´America latina). Erano poi avvenute le grandi trasformazioni socialiste: la riforma agraria, le nazionalizzazioni, una pianificazione ispirata dall´Unione Sovietica, ormai stretta alleata nell´ideologia ma anche partner - protettore indispensabile, poiché acquistava lo zucchero da cui dipendeva la sopravvivenza economica dell´isola. Il mio soggiorno del ”65 fu un incubo. Si viveva a Cuba un clima di guerra. Dopo la sbarco nella Baia dei Porci del ”61, c´era stata l´anno successivo la crisi dei missili, che aveva condotto il mondo sull´orlo di una guerra nucleare. L´URSS aveva rinunciato, in seguito all´ingiunzione americana, ad installare sull´isola missili destinati a difendere Cuba ma anche a minacciare inevitabilmente gli Stati Uniti. Erano stati giorni tremendi, destinati ad incupire ancora di più i rapporti tra la superpotenza e il mini stato comunista dei Caraibi. La crisi dei missili aveva appesantito l´embargo economico. Embargo che, con variabile intensità, l´America impone da quasi mezzo secolo a Cuba. L´Avana è oggi una bellissima città. In parte è stata restaurata, in parte è rimasta per fortuna intatta, cioè tarlata dal tempo, non troppo agghindata per accontentare il fiume di turisti che ha ridato respiro economico all´isola. Non tanto tempo fa, poco prima che si ammalasse, ma aveva già la parola impastata, mi è capitato di ascoltare un lungo discorso di Fidel. Ce l´aveva col computer. Si, con l´informatica. Con Internet. Sembrava un patriarca in collera col progresso. Lo si capisce: i blog possono sfuggire alla censura. Sono inafferrabili. Era già la patetica fine del conservatore. Il giorno dopo, in un ristorante dell´Avana, uno scrittore cubano di raffinato talento, ha criticato durante tutta la cena il regime, enumerandone sciocchezze e abusi. Mi è venuto spontaneo concludere che Fidel Castro era in definitiva un classico dittatore latino americano. Non l´avessi mai detto. Lo scrittore è insorto: «No, il castrismo non è al servizio di una classe privilegiata, né arricchisce chi comanda». Avrei voluto replicare che forse Cuba è una scheggia della scomparsa costellazione sovietica curiosamente sopravvissuta nel Mare dei Caraibi. Ma mi sono reso conto che neppure questo è vero. Sapremo quel che è in realtà quando Fidel si sarà veramente ritirato tra le quinte, come la storia, non solo l´età, ormai impone. Bernardo Valli