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 2008  febbraio 26 Martedì calendario

Ecco cosa bolle nei grandi giornali. ItaliaOggi 26 febbraio 2008. Il Corriere istituzione. Uno dei tanti luoghi comuni che girano nel nostro ambiente è sintetizzabile in questa battuta, logora quanto si vuole ma in buona parte ancora efficace: «In Italia i giornalisti si dividono in due categorie: quelli che lavorano al Corriere della Sera e quelli che al Corriere della Sera ci vorrebbero lavorare»

Ecco cosa bolle nei grandi giornali. ItaliaOggi 26 febbraio 2008. Il Corriere istituzione. Uno dei tanti luoghi comuni che girano nel nostro ambiente è sintetizzabile in questa battuta, logora quanto si vuole ma in buona parte ancora efficace: «In Italia i giornalisti si dividono in due categorie: quelli che lavorano al Corriere della Sera e quelli che al Corriere della Sera ci vorrebbero lavorare». A torto o a ragione-ma io credo abbastanza a ragione, Il Corriere è considerato il massimo, nel nostro mestiere e la sua sede di via Solferino è una sorta di Scala del giornalismo. I buchi. La mattina ci si svegliava con l’incubo di scoprire, leggendo i giornali della concorrenza, di aver preso «un buco», cioè di leggere una notizia che noi non avevamo. Quasi sempre non c’era neppure bisogno di sfogliare altri quotidiani, per scoprire il fattaccio: si veniva svegliati, a casa, dalla telefonata del capocronista. Erano telefonate dal contenuto irripetibile e irriferibile, e dal tono crescente o calante a seconda che la notizia sfuggitaci fosse un omicidio, un sequestro di persona, una rapina o un furto. La conclusione, invece, era sempre la stessa, «hai preso un buco», frase speculare e quindi opposta a quella che il medesimo capocronista era solito pronunciare-in redazione, davanti a tutti-le volte in cui eravamo noi ad aver portato al giornale una notizia in esclusiva: «Abbiamo dato un buco». ... A un tratto, dal centralino del Corriere venne passata, sull’interno del collega di turno per la nera, una telefonata: «Siamo delle Brigate Rosse, dobbiamo comunicare una notizia importante». «E io sono Napoleone» disse il collega riattaccando. Poco dopo il telefono risuonò: «Siamo ancora le Brigate Rosse_»: Non mi rompa le scatole, ho da fare» fu la risposta. Il giorno dopo, sul Giornale, c’era uno scoop: le Br avevano abbandonato un rifugio a Milano, pieno di armi e avevano deciso di farlo sapere a tutti attraverso il Corriere. Non trovando ascolto, avevano chiamato il Giornale, imbattendosi in quella vecchia volpe di Paolo Longanesi, che si era precipitato all’indirizzo indicato dai brigatisti con un fotografo, era tornato in redazione confezionando l’articolo, e solo verso le due di notte, a giornali ormai chiusi, aveva avvertito la Digos. La gavetta - la firma. «Una sera», raccontò Giuliani, «il capocronista Ferruccio Lanfranchi mi incaricò di scrivere un pezzo vero, intendo uno di quelli che si possono firmare. Emozionatissimo, sudando e tremando, mi misi alla macchina per scrivere. feci e rifeci il pezzo un’infinità di volte. Infine lo portai in tipografia, dove Lanfranchi stava impaginando. Senza guardarmi in faccia prese il dattiloscritto e cominciò a leggerlo. Quindi, sempre senza guardarmi, emise il verdetto «Ormai è troppo tardi» disse appallottolando i fogli e gettandoli nel cestino. Ero disperato. Ma il proto, cioè il capo della tipografia, che aveva visto e sentito tutto, si avvicinò e mi disse: «Sciur Giuliani, lei non lo ha capito: ma questa sera ha dato l’esame di maturità e lo ha superato». Era vero: cestinando il pezzo con la motivazione «ormai è troppo tardi», Lanfranchi mi aveva implicitamente comunicato che, quanto a scrittura, l’articolo andava bene. Infatti il giorno dopo mi commissionò un altro articolo e lo pubblicò con la mia firma. La mia prima firma». La firma è invece ormai diventata un diritto acquisito anche per chi ha messo piede per la prima volta in una redazione, stagisti compresi. Quella che era una conquista da raggiungere con fatica, adesso è un dato scontato. E quando una cosa la si ottiene senza fatica, perde valore. Ma non solo. La «tutela» del cdr sugli scritti dei giornalisti, espressioni personali e come tali sacre e inviolabili, ha fatto sì che legioni di analfabeti di ritorno (e a volte anche di andata) vedano ora passare i propri articoli direttamente dal loro computer all’edicola senza che alcun superiore possa sognarsi di intervenire e correggere. Quando qualche caporedattore osa farlo, il giornalista, sia esso pure un principiante, si rivolge al cdr che grida alla lesa maestà, all’attentato alla libertà di stampa, alla Costituzione e magari anche alla democrazia. Credo sia meglio all’algido distacco di un Lanfranchi, piuttosto che certe conquiste sindacali. Mieli. Capire ciò che pensa Paolo Mieli non è difficile: è impossibile. Quando dice una cosa è segno che ne pensa un’altra; dalla sua faccia nulla trapela di ciò che gli frulla nell’animo. Con permesso, racconto un episodio che riguarda anche il sottoscritto. Sono passati più di dieci anni, e quindi dovrebbe essere scatta la prescrizione. Ero, allora, vicecaporedattore della cronaca di Milano. Un giorno, alla riunione di redazione nella celeberrima sala Albertini, Mieli interruppe un collega che stava raccontando ciò che aveva in mente di pubblicare per fissarmi e, a freddo, inchiodarmi con un’accusa terrificante: «Voi della cronaca siete stupidi, avete fatto una cosa assurda». Atterrito, Mieli è un uomo che incute soggezione, attesi di conoscere il capo di imputazione. «Avete pubblicato un articolo di Carlo Tognoli (l’ex sindaco di Milano, nda) senza dirmelo. Ora, Tognoli è una persona rispettabilissima, ma per la gente Tognoli vuol dire Psi, e Psi a Milano vuol dire ancora Tangentopoli. Un articolo di Tognoli sul Corriere è un segnale politico, vuol dire che sdoganiamo gli ex socialisti, non potete prendere iniziative del genere senza avvertirmi». Incassai, naturalmente. Ma alla fine della riunione Mieli mi inseguì nel corridoio per dirmi: «Sai quanto ti stimo, so perfettamente che tu non c’entri nulla e che una fesseria del genere non l’avresti mai fatta. So che è colpa di Sallusti, (che era il capocronista): mandamelo su che gliene dico quattro». Raccontai tutto a Sallusti il quale, preoccupatissimo, salì subito da Mieli. Trovandolo però per nulla arrabbiato. «Ma come?» disse Sallusti, «Brambilla mi ha detto...». «Sta tranquillo», rispose Mieli, «avete fatto benissimo a pubblicare quel pezzo. Ma siccome in riunione c’era Fiengo (Raffaele Fiengo, leader storico del comitato di redazione) per prevenire una sua contestazione ho fatto finta di arrabbiarmi». Sindacalista di redazione. Leader del cdr (il sindacato aziendale dei giornalisti)) del Corriere negli anni 80 era e lo è rimasto per una trentina d’anni, con brevi interruzioni, Raffaele Fiengo, un nome che dice poco ai lettori, visto che in tutta la sua carriera di articoli ne ha vergati ben pochi. Qualche anno fa Massimo Fini scrisse che Fiengo non aveva «mai scritto un rigo» e fatto il sindacalista a tempo pieno a spese del Corriere: ma Fiengo lo querelò e vinse la sua causa perché potè dimostrare di aver scritto, in una trentina d’anni, ben 53 articoli, Ma sì: 53. Tuttavia, benché sconosciuto o quasi al grosso pubblico, Fiengo è il Grande Vecchio del sindacalismo italiano del nostro mondo. Fiengo è alto e dinoccolato; i suoi occhi azzurri sembrano perennemente fissare un punto nel vuoto; indossa jeans e montgomery blu, si sposta per Milano in bicicletta: insomma ha tutto l’occorrente per un look da «liberal». Quest’uomo ha dominato e monopolizzato il Cdr a partire dagli anni in cui il Corriere, con Piero Ottone direttore e Giulia Maria Crespi editore, abbandonava forme e contenuti del grande giornale della borghesia conservatrice lombarda per strizzare l’occhio sia alla sinistra tradizionale, sia a quella gruppettara partorita dal Sessantotto. Di quel «nuovo corso» un po’ barricadero e molto radical chic, Fiegno è considerato uno degli ispiratori. Non mediante articoli o editoria, ma, secondo l’accusa di coloro che non ne condividevano la linea, tra cui Enzo Bettiza, che gli ha dedicato pagine memorabili nel suo libro Via Solferino, attraverso assemblee, suggerimenti sulle assunzioni, insomma attraverso una mobilitazione politica. Mobilitazione concordata, sempre secondo gli anti-Fiengo, con la segreteria milanese del Pci: un’accusa che il leader del cdr ha sempre respinto, autodefinendosi «un liberale». Fatto sta che in quegli anni il clima al Corriere pareva talmente impazzito che il settimanale Panorama fece una copertina chiedendosi: «Ma il Corriere è diventato comunista?». E fatto sta pure che quel clima fece dire un giorno al premio Nobel Eugenio Montale, che al Corriere ci lavorava: «Ci sono i soviet, lì dentro». Storie vecchie, comunque. Fiengo ha finito la carriera, quando si dice la Nemesi, in qualità di responsabile della pagina delle lettere di Montanelli, suo fiero avversario negli anni che furono. Gli è sopravvissuto il fienghismo, specie al Corriere: ma più passa il tempo, più si smagnetizzata, e i comitati di redazione diventano sempre più pratici e sempre meno ideologici. E quando incontrano gli editori, più che di sacri principi parlano di quattrini. Dino Buzzati. Un mondo di ieri, è ovvio. Ma un mondo che ha creato il giornalismo moderno, e un mondo di cui Buzzati fu un maestro. Buzzati fu prima grande reporter, e poi grande estensore. Dopo di che, diventò anche grande titolista. Arnaldo Giuliani, il mio primo capocronista, raccontava di un giorno in cui bisognava titolare un pezzo a quei tempi delicatissimo. Un uomo era divenuto impotente e la moglie, persa prima la speranza e poi la temperanza, si era trovata un amante. Il marito la scoprì e, come usavano fare allora i cornuti, la uccise. Con quali parole si poteva titolare quell’articolo? In pagina c’era solo una riga di spazio. Nessuno sapeva trovare una soluzione, fino a quando arrivò Buzzati che prese la penna e su un pezzo di carta scrisse: «Non coniugava l’imperfetto». Come tutti i geni fu anche a lungo incompreso. Al Corriere, i primi anni, lo chiamavano «cretinetti». In via Solferino i vecchi raccontavano che nel 1933, una sera, il grande Orio Vergani si accorse che il giovane Buzzati aveva sul tavolo un manoscritto. Lo prese, quasi di forza, e cominciò a leggerlo. Era Bàrnabo delle montagne, il primo romanzo. Vergani sollevò Buzzati di peso e lo trascinò verso l’ufficio del direttore, Aldo Borelli. «Direttore», gridò Vergani, «abbiamo un genio al giornale». «Un genio? E chi è?», domandò Borelli. «Cretinetti», rispose Vergani. Era nata una nuova stella nel firmamento di via Solferino. Indro Montanelli. I contestatori del 368, che il vecchio Corriere di Spadolini chiamava «capelloni», erano diventati d’un tratto, dalle pagine del Corriere di Ottone, dei bravi ragazzi, anzi idealisti che volevano finalmente cambiare il mondo; e la polizia, da sempre trattata con fin troppa riverenza, fu considerata all’improvviso uno strumento di repressione al servizio dei padroni. Il tradizionale giornalone della borghesia milanese aveva preso da qualche tempo a pubblicare cronache degli scontri di piazza in cui gli estremisti erano sempre le vittime, e i poliziotti sempre i carnefici; e poi inchieste e reportage dove l’Italia era dipinta come un paese più sudamericano che europeo, dove l’esercito era fascista, i servizi segreti sempre deviati, gli industriali sfruttatori del lavoro nero, i politici solo corrotti, la sanità da Nordeste brasiliano. Ecco perché Montanelli decise di abbandonare il Corriere della Sera di cui pensava di essersi ormai cucito sulla giubba i colori, visto che in via Solferino era entrato trentacinque anni prima e visto che in quel 1974, quando decise di andarsene per fondare un altro quotidiano concorrente, di anni ne aveva già 65. Un’età in cui si può essere ancora in forma, come era nel suo caso: ma anche un’età in cui di solito, più che infilarsi in nuove avventure, si sceglie un buen retiro. Strappo doloroso, quindi, reso ancor più doloroso dall’estremo sgarbo che Ottone volle fare a Montanelli, negandogli il permesso, ma sarebbe meglio dire il diritto, di pubblicare sul Corriere l’articolo di congedo dai suoi vecchi lettori. Quando, dopo la lite con Silvio Berlusconi e il fallimento della Voce, Montanelli, chiamato da Mieli, tornò al Corriere gli venne concesso un ufficio nobile che gli fu assegnato al fondo del corridoio della direzione; tuttavia, Montanelli non vi mise quasi mai piede. Al Corriere stava piuttosto la sua fedelissima segretaria Iside, che l’aveva sempre seguito a ogni cambio di giornale, e che era incaricata, fra le altre cose, di raccogliere ogni giorno la «Stanza», cioè l’articolo che Montanelli scriveva in risposta alle lettere dei lettori. Montanelli preferiva scrivere da casa. Stava, contrariamente a quanto si possa immaginare, in un condominio normalissimo, anzi piuttosto anonimo, all’inizio di viale Piave, sopra il supermercato dell’Esselunga. Il suo appartamento era al sesto piano, e questo era l’unico lusso ch’egli si concedeva: stare in alto, in modo da poter ammirare Milano, città che non era la sua, ma che aveva finito per amare come fosse la sua. «Milano», diceva, «è molto più bella di quanto si dica. che è una città giansenista, nel senso che nasconde per pudore le sue bellezze, che stanno chiuse all’interno dei cortili, e che si possono vedere solo dall’alto».  stato un maestro per due o tre generazioni di giornalisti. Insegnava a non parlare di idee o di tesi astratte, ma di uomini, «perché all’uomo interessa l’uomo». Raccomandava di scrivere come si parla, e di farsi capire da tutti, di non cercare solo i lettori «dotti». Diceva che il giornalismo è una cosa molto più semplice di quanto si creda: «Quando scrivi un articolo di fondo», diceva, «non devi pensare di esprimere molti concetti. Devi avere, da comunicare, un’idea sola. Meglio se mezza». E quando qualcuno diventava direttore, uno dei primi consigli che dava era quello di «non leggere i giornali, soprattutto il tuo, se no ti incazzi: tanto, ormai è uscito...». Carlo Verdelli. Nel nostro ambiente Verdelli è considerato un genio, e lo è: i risultati parlano chiaro. Ha fatto miracoli ovunque è andato, soprattutto quando ha rimesso in piedi, dopo una falsa partenza, l’edizione italiana di Vanity Fair, diventato con lui il settimanale più letto e più citato fra noi giornalisti. Alla Gazzetta dello Sport ha reinventato il quotidiano sportivo, un genere che stava per essere soffocato dall’indigestione di calcio in tv. Ma quel che pochi conoscono sono le qualità umane di Verdelli. Uomo venuto dalla gavetta vera, mi ha insegnato a non arrendersi alle difficoltà. Raccontava di quando, giovanissimo, aveva bussato alla porta dell’edizione milanese di un grande quotidiano nazionale per offrirsi come collaboratore. Fu ricevuto dal caporedattore, al quale consegnò una busta con alcuni suoi articoli: era il suo biglietto da visita. Il caporedattore lo rassicurò con le frasi di rito: «Leggerò, poi mi farò vivo». «Uscii dal giornale pieno di speranze», raccontava Verdelli, «talmente felice che mi dimenticai della pioggia battente. Solo quando fui in strada mi ricordai che avevo lasciato l’ombrello nell’ufficio del caporedattore. Tornai da lui, bussai, entrai e nel prendere l’ombrello vidi che la mia busta, ancora chiusa, era finita nel cestino della spazzatura. Il caporedattore cercò di giustificarsi balbettando scuse improbabili. Non gli dissi niente: uscii giurando che ce l’avrei fatta». Vittorio Feltri. L’Indipendente era nato con la pretesa di imporre all’Italia il classico stile british, cioè molto sobrio; pretesa bizzarra, visto che un simile tipo di giornale in Inghilterra era già moribondo: il Times, per intenderci, stava già cambiando. Il primo Indipendente, quello pre-Feltri, fu insomma un buco nell’acqua, un giornale più noioso che serio, più soporifero che compassato. Bisognava dargli una scossa, ma come? Feltri decise di chiedere consigli a un «grande vecchio» del mestiere: Gaetano Afeltra. «Andai da Afeltra con il timore reverenziale che si deve a un mostro sacro del giornalismo», mi raccontò poi Feltri. «Mi sedetti davanti a lui e tirai fuori il taccuino per prendere appunti. «Che fai?», mi disse. E io: «Mi segno tutti i consigli che mi dai, così non me li dimentico». «Non c’è niente da appuntarsi, metti via quel taccuino», fece lui. «Il consiglio è uno solo: piglia o’ iurnale e riempilo emmerda», mi disse. Voleva dire: spazza via le pretese di giornale d’élite, e fanne uno aggressivo, vivace, con le notizie che la gente vuole, siano pure pettegolezzi. E io così feci». Feltri è uno di quei direttori, non moltissimi, che il mestiere lo sa trasmettere. I suoi consigli sono forse cinici ma probabilmente per questo efficaci: «Quando scrivi un pezzo, non documentarti troppo: tanto, quelli che leggono non sanno quasi niente di ciò di cui stai parlando. E tu devi metterti in sintonia con loro. Se parli troppo difficile, non ti seguono. Non stare neanche a fare schemi: scrivi di getto come se stessi parlando a tua moglie o tua mamma, usa il linguaggio di tutti i giorni. Insomma, scrivi come parli». Mobbizzato e scarabeo. Una figura che ormai si può a pieno titolo inserire nell’organico di ogni giornale è quella del mobbizzato, altrimenti detto genio incompreso. Il mobbizzato è un fenomeno del giornalismo alla macchinetta del caffè: è qui infatti che, parlando, anzi, brontolando, con i colleghi, spiega come lo farebbe lui il giornale; quali inchieste promuoverebbe, quali editorialisti ingaggerebbe, quale linea politica seguirebbe, persino quali strategie di marketing adotterebbe. Per il mobbizzato, il direttore, chiunque egli sia, è un cretino, e l’amministratore delegato un incapace. Quanto all’editore, «non sa valorizzare le risorse interne». Le requisitorie alla macchinetta del caffè solitamente proseguono nei corridoi, dove il mobbizzato insegue i malcapitati colleghi: il volume della sua voce si abbassa, perché c’è sempre qualcuno che potrebbe sentire, fino a diventare un bisbiglio che si conclude immancabilmente con un «io sì, che saprei come fare!». Il mobbizzato è un soggetto singolarmente perseguitato dalla sfortuna: non può mettere in mostra le sue capacità perché ha inanellato ben otto direttori tutti prevenuti nei suoi confronti, nessuno gli ha mai dato la possibilità di esprimersi come egli potrebbe e saprebbe fare. Per questo, il genio incompreso ha deciso di fare causa per mobbing. Bussa e contemporaneamente lo Scarabeo apre la porta quel tanto che basta per infilare nel tuo ufficio la sua testa, che allunga in avanti pur tenendo il resto del corpo in corridoio. «Ce l’hai un attimino?», domanda. A quel punto sei fregato: pensi che per le prossime quattro-cinque ore ce l’avrai davanti e sarai sommerso dalle sue parole. Scarabeo, infatti, è uno di quei soggetti talmente infidi da poterti perfino provocare un senso di colpa. Esordisce sempre facendoti i complimenti per l’ultimo pezzo che hai scritto: «Bellissimo», «esemplare», «mi ricordi Montanelli»; prosegue assicurando che, se fosse per lui, tu saresti come minimo direttore (e, se direttore lo sei già, giura che mai si è trovato tanto bene come con te); quindi comincia a raccontarti la sua vita, che è «come un romanzo». Se, invece di vedertelo spuntare dalla porta dell’ufficio, lo incontri per strada, comincia a sorriderti a decine di metri di distanza, ed è un sorriso che equivale a una condanna, è come se ti dicesse: adesso non mi scappi più. Impossibile troncare un discorso di scarabeo. Non c’è «ho capito» o «va bene» o «d’accordo» o «scusa ma adesso ho da fare» che tenga: lui continua imperterrito, magari aprendo un nuovo fronte. Vigliacchissimo è poi quando ti saluta e fa per andarsene: sembra fatta, ma poi si gira di scatto, «dimenticavo...». Michele Brambilla