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 2008  febbraio 26 Martedì calendario

Cina, fine dei prezzi stracciati. La Repubblica 26 febbraio 2008. Dietro il carovita che impoverisce i consumatori in Italia come in tutta l´Europa e gli Stati Uniti, c´è un cambiamento profondo nell´economia globale

Cina, fine dei prezzi stracciati. La Repubblica 26 febbraio 2008. Dietro il carovita che impoverisce i consumatori in Italia come in tutta l´Europa e gli Stati Uniti, c´è un cambiamento profondo nell´economia globale. E´ la fine dello "sconto cinese". Per la prima volta da quando è diventata un peso massimo del commercio internazionale, la Repubblica popolare non esporta più soltanto scarpe e vestiti, computer e televisori, ma anche inflazione. Una delle ragioni di questo cambiamento è una novità salutare: gli operai cinesi alzano la testa. Nelle zone dove c´è la piena occupazione il loro potere contrattuale migliora, i salari aumentano. E´ esattamente quel che sta accadendo lungo il delta del fiume delle Perle, nel Guangdong che è la regione più industrializzata della Cina, la vera fabbrica del pianeta. Lì a gennaio le buste paga degli operai cinesi sono aumentate del 13% in media, rispetto a un anno fa. E´ una rincorsa salariale senza precedenti nella storia recente della Cina comunista, anche se non basta a compensare altri rincari del costo della vita locale (la fettina di maiale è aumentata del 48% in un anno). Se la classe operaia cinese si sveglia il mondo trema, per parafrasare la celebre frase di Napoleone. Dopo avere auspicato un progresso nelle condizioni sociali e nei diritti umani, ora ci accorgiamo che anche un modesto miglioramento retributivo in Cina non è indolore per i consumatori occidentali. Alan Greenspan, quando era presidente della Federal Reserve americana, aveva capito che la Cina era il suo migliore alleato per tenere a bada l´inflazione. Secondo Greenspan dalla seconda metà degli anni 90 fino a un´epoca molto recente, l´economia americana è stata miracolata da un "nuovo paradigma": gli incrementi di produttività diffusi dalla New Economy (con l´adozione universale delle nuove tecnologie), più il ribasso dei prezzi al consumo regalato dall´invasione del made in China, hanno consentito agli Stati Uniti dei ritmi di crescita sostenuti, senza generare tensioni sui prezzi. La politica dei bassi tassi d´interesse seguita dalla Federal Reserve era dovuta anche a questa convinzione: a contrastare l´inflazione ci pensavano le importazioni di prodotti cinesi. Quella fase magica si sta chiudendo sotto i nostri occhi. Gli americani - i consumatori più "sino-dipendenti" del pianeta - sono stati i primi ad accorgersene. Nel solo mese di gennaio i prezzi del made in China sono saliti dello 0,8%, l´aumento più elevato da quando lo Us Labor Department ha cominciato a misurare questo dato. In alcuni settori la fine dello sconto cinese si è già trasformata nel suo rovescio. Nel tessile-abbigliamento i prezzi al dettaglio negli Stati Uniti erano in discesa costante dal 1998, via via che il made in China rimpiazzava sugli scaffali i prodotti italiani o messicani. Da ottobre improvvisamente i vestiti sono rincarati del 4,6% (con punte del 7,3% nell´abbigliamento femminile). Negli Stati Uniti e in Europa resuscita di colpo lo spettro della stagflazione - crescita zero più inflazione - che aveva colpito l´Occidente negli anni 70. Una parte di questo choc è nata nel cuore dell´America, tra il crollo del mercato immobiliare e la crisi dei mutui. L´altro ingrediente sta in Cina. Questo colosso era stato un potente calmiere dei prezzi soprattutto dopo il suo ingresso nell´Organizzazione mondiale del commercio (2001). Ora l´indice dei prezzi al consumo cinesi è in crescita del 7,1%, il più forte rincaro del costo della vita negli ultimi 12 anni. L´inflazione nella Repubblica popolare si ripercuote inevitabilmente sui prezzi esteri del made in China. Al rincaro delle esportazioni contribuisce anche la graduale rivalutazione della moneta cinese, lo yuan o renminbi. Dal luglio 2005, quando smise di essere rigidamente agganciato al dollaro, lo yuan si è rafforzato del 16% sulla moneta americana (ma non sull´euro). Ai rincari sui prodotti made in China, si aggiunge la corsa alle materie prime che Pechino contende agli occidentali. Con una economia che l´anno scorso è cresciuta dell´11,4% la Cina è diventata "l´elefante nella cristalleria" sui mercati dell´energia, dei minerali, delle derrate agricole. Poveri di risorse naturali in casa propria, i due giganti asiatici Cina e India hanno travolto tutti gli equilibri tra domanda e offerta. Dal petrolio a 100 dollari fino al minerale di ferro rincarato del 65% in pochi mesi, dall´oro ai cereali, tutte le commodities segnano record storici per la pressione dei bisogni asiatici: centinaia di milioni di nuovi abitanti di centri urbani; cantieri edili a non finire; fabbriche energivore; il boom della motorizzazione individuale. La dieta alimentare del ceto medio cinese si globalizza e "scopre" i dolci per la prima volta nella storia, facendo impazzire le quotazioni mondiali di cacao, zucchero, caffè. Il benessere che fa crescere il consumo di proteine, insieme con la ricerca di fonti alternative di energia nei biocarburanti, mandano alle stelle i prezzi di soya, grano, riso. La Cina non è autosufficiente per i suoi bisogni alimentari, quest´anno importerà 8,4 miliardi di dollari di prodotti agricoli dagli Stati Uniti, un aumento del 300% rispetto a dieci anni fa. Anche questo spiega i rincari della pasta e del pane nei supermercati italiani. Con un apparente paradosso, la fine dello sconto cinese non riduce la nostra dipendenza dal made in China. Anzi, le esportazioni cinesi verso il resto del mondo hanno segnato un nuovo massimo storico a gennaio aumentando del 27%: 110 miliardi di dollari di vendite in un solo mese. La più grande catena di ipermercati americani, Wal-Mart (che ha un fatturato superiore al Pil della Svizzera) ha confermato che continuerà ad approvvigionarsi in Cina esattamente come prima, malgrado i rincari e nonostante gli scandali sui prodotti tossici. La spiegazione: la Cina è diventata un quasi-monopolio in molti settori. In Occidente sono state smantellate e delocalizzate gran parte delle fabbriche che producevano non solo jeans e scarpe ma anche pc, laptop, telefonini, videocamere. Il made in China può rincarare, le fabbriche non torneranno indietro. FEDERICO RAMPINI