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 2008  febbraio 24 Domenica calendario

IL DOPPIO ENIGMA DEL KILLER

Corriere della Sera 24 febbraio 2008.
QUANDO MI CHIEDONO DI SCRIVERE UN GIALLO (NE HO SCRITTO SOLTANTO UNO, E SUI GENERIS,
GIALLOPARMA) NON PENSO A UN DELITTO SPECIFICO, A UN ASSASSINO SPECIFICO, ISCRITTO NELLA CRONACA NERA, SUL QUALE SVOLGERE UN’INDAGINE OGGETTIVA.
A UNA CONGETTURA CHE NON PARADOSSO, MA UN’INTERPRETAZIONE TRASLATA DELLA REALT.
A un uomo che ha scritto un giallo attraverso se stesso, quasi il suo corpo, la sua mente, fossero un fascio di fogli sui quali stendere una storia delittuosa con un capo e una coda, smarrendo troppo spesso il filo. Penso a Donato Bilancia. Troppi difetti d’autore, di commediante della perversione: eccesso di complessi, di fantasia macabra, di istrionismo del male, di contraddizioni nel comportamento. Sì, l’uomo è proprio Donato Bilancia. E assimilo la sua disgraziata avventura a un mucchio di fogli pieni di cancellature, note in margine, frasi incise con inchiostro rossosangue come incazzature di un autore che non ce la fa con la sua trama.
Dati di fatto: Bilancia resta l’assassino più famoso d’Italia. Nessuno ha ucciso come lui nel nostro Paese. Le ragioni? Un girotondo di motivi, senza che nessuno, in apparenza, prevalga. All’avvocato Nino Marazzita dichiara: «Io per primo sono interessato a capire. Ho bisogno di fare un viaggio dentro la mia testa. Sono in grado di raccontare le cose che ho fatto, i delitti che ho commesso, ma non le ragioni».
L’unico legame che collega i suoi crimini è apparso, ai più, la pistola Smith & Wesson 38. Altro record sinistro: tredici ergastoli e una ventina di anni in più per un tentato omicidio e una rapina. Vittorino Andreoli, che ha condotto la perizia psichiatrica della difesa e che ha chiesto, senza ottenerla, l’infermità mentale, ha ammesso di essersi trovato davanti all’enigma personificato. Le parole di Andreoli tornano alla memoria sconvolgenti: i crimini di Bilancia sono l’evento più drammatico nello scenario del crimine dell’Italia del Novecento, e Bilancia nel suo genere è eccelso, una specie di Leopardi del crimine che ha distrutto ogni teoria criminologica.
Senza motivi
Nessuno prima di lui aveva ucciso così freneticamente senza un motivo apparente, né un vantaggio economico: Bilancia è un assassino anonimo che uccide anonimi, e uccide per uccidere, quando si sente completamente solo decide di annullarsi, spara per violenza autodistruttiva, una pulsione di morte per dirla con Freud. Bilancia uccide perché è già morto... Dunque non esistono le spinte dell’odio, della ritorsione, dell’ossessione, dell’erotomania o della sessualità ridotta a marciume? Visto che va esclusa l’incapacità di intendere e di volere, essendo stata negata l’infermità mentale, dobbiamo convenire che quello che abbiamo definito «un giallista attraverso se stesso», pur avendo il talento «di un Leopardi del crimine», altro non è che un autore velleitario, un grafomane dissennato, che non ha niente da dire, da proporsi, se non il silenzio della morte altrui per assimilarlo al silenzio mortale che si porta in corpo? Ma non c’è già, in questa constatazione che pare nullificante sull’«autore », almeno un barlume di una tematica tutt’altro che misera, insignificante?
Il complesso di Pollicino
Nel percorso, diciamo paradossalmente «creativo» di Bilancia, non tutto è soltanto cruento, vago. Ci sono spunti degni di nota, anche se sommersi, non evidenziati a dovere dai «critici giudicanti». Questi spunti si espongono alla derisione facile dei superficiali, al motteggio. Parliamo di complessi. Jung indica con questa parola un elemento dell’io che si separa dalla coscienza e che continua nell’inconscio a regolare l’atteggiamento dell’individuo. I complessi di cui ha sofferto Bilancia hanno, scientificamente, nomi buffi. Il «complesso di Pollicino», anzitutto. Bilancia trova il coraggio di manifestarlo, con disperazione, quando lo psichiatra Andreoli lo incontra in carcere. Il serial killer (definizione impropria, in quanto i delitti seriali si susseguono, in genere, con intervalli più lunghi) non ha più bisogno di fingere, e non finge. C’è qualcosa che vuol mostrare subito. Insiste. «Guardi!». la parte inferiore del suo corpo, dalla cinta in giù, che considera atrofica. Una scena sconcertante.
Quel «Guardi!». La supplica contiene il tormento di una vita. Un complesso dal nome buffo, contenuto latente nella favola di Pollicino.
Portiamoci indietro nel tempo. Quando, d’estate, Bilancia tornava al Sud dai parenti, il padre mostrava il suo corpo nudo a tre cugine («Le mummie!» le chiama l’autore) per esporre il suo difetto. Nel giallo in chiave personale si legge: «Avrei voluto scomparire, mi attorcigliavo su me stesso, pregavo in ginocchio di smetterla, ero morto di vergogna ».
Alberto Bevilacqua