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 2008  febbraio 24 Domenica calendario

Il dovere di negoziare. La Repubblica 24 febbraio 2008. C´è un solo modo per impedire che il Kosovo si avviti nel caos: costringere Belgrado e Pristina a negoziare direttamente la loro inevitabile convivenza

Il dovere di negoziare. La Repubblica 24 febbraio 2008. C´è un solo modo per impedire che il Kosovo si avviti nel caos: costringere Belgrado e Pristina a negoziare direttamente la loro inevitabile convivenza. Senza più citare nemmeno per sbaglio la questione dello status, su cui per il futuro prevedibile ognuno resterà della sua idea. Ma costruendo un regime di cooperazione serbo-albanese su tutto ciò che conta: dalla protezione delle minoranze al commercio, dall´energia al contrasto delle mafie. Per il Kosovo è la prima, vitale necessità: il baby-staterello non potrebbe sopravvivere se la Serbia volesse strangolarlo nella culla, destabilizzandolo e infiltrandovi commandos di provocatori contro cui le forze internazionali potrebbero poco. Per la Serbia è l´ultima opportunità: invece di eccitarsi nello sterile risentimento contro l´Occidente, dimostrerebbe nei fatti di assumersi la responsabilità di una terra che considera propria. Per noi italiani e per quegli altri paesi non solo occidentali che si sono precipitati a riconoscere il Kosovo "indipendente", esasperando una crisi difficilmente controllabile nelle sue diramazioni regionali e globali, sarebbe un modo per limitare i danni. E per ricordare a noi stessi ciò che periodicamente dimentichiamo: questi Balcani sono un malato cronico. Da trattare con prudente, omeopatica perseveranza. Esattamente il contrario di quanto abbiamo fatto dagli anni Novanta in poi, oscillando fra oblio e terapie d´emergenza. Con il risultato di lasciare che i conflitti a lungo trascurati riesplodessero anche a causa della nostra pretesa di risolverli d´un colpo. Da aspiranti moderatori siamo scaduti a strumenti delle fazioni locali. Magari illudendoci, in un riflesso tardocoloniale, di esserne i protettori. Con i nostri spocchiosi "governatori" ridotti a governanti (femminile plurale). Non è troppo tardi per correggere la rotta. E´ possibile, necessario e urgente. L´alternativa, prima o poi, è la destabilizzazione del Kosovo, la riapertura di ferite superficialmente suturate (Bosnia) o dimenticate (Sangiaccato serbo-montenegrino, minoranze albanesi della Serbia meridionale e della Macedonia occidentale, irredentismi magiari nella Vojvodina serba eccetera), per tacere degli effetti di balcanizzazione su scala mondiale, alcuni già visibili. In questo clima è improbabile che kosovaro-albanesi e serbi dimostrino spontaneamente tanta lungimiranza. Solo americani e russi insieme possono inchiodarli al tavolo. Ma i primi sono in tutt´altre faccende affaccendati e i secondi vogliono godersi fino in fondo lo spettacolo di un Occidente che, non richiesto, si è ficcato in un tunnel da cui non sa come uscire. E che ha regalato la Serbia e altri Balcani alla nuova sfera d´influenza moscovita, estesa ormai senza interruzioni dal Mar Nero all´Adriatico. Non restiamo che noi europei. Invece di accapigliarci sullo status – ormai è stabilito che ognuno farà come crede – potremmo premere sui contendenti e sui loro sponsor di Washington e Mosca perché si impegnino a lenire i traumi conseguenti alla proclamazione unilaterale dell´indipendenza del Kosovo. Sapendo che quel territorio può cambiare mille bandiere e mille denominazioni, ma non sfuggirà al destino che la geografia gli impone. Anche da "indipendente", era, resta e sarà condannato a convivere con la Serbia. Persino se un giorno dovesse unirsi all´Albania e ai contigui territori agognati dall´irredentismo illirico. Lo sanno bene i capiclan kosovari, che cogestiscono i loro traffici criminali (droga, armi, prostituzione, contrabbando di petroli eccetera) con i confratelli serbi. Se le mafie collaborano per i comuni interessi, perché non anche gli Stati? Tanto più che in Kosovo – ma anche in altri paesi della regione – i due livelli tendono a coincidere: i capi politici sono i capi dei clan mafiosi, i quali a suo tempo erano i capi della guerriglia. Quando necessario, svestiranno il doppiopetto per la tuta da combattimento. In fondo, il futuro del Kosovo si gioca sulla capacità dei più intelligenti fra i leader locali ad assumere non solo nell´abito la mentalità dello statista piuttosto che quella del boss mafioso o del partigiano. Hashim Thaci sembra averlo capito. Molti dei suoi, non ancora. Forse si illudono di poter mungere per sempre la vacca degli aiuti internazionali, trafficando all´ombra dei nostri militari. Nel caso dovremmo illuminarli sull´improbabilità che il loro Stato campi in eterno a carico del contribuente europeo. L´Italia può aggiungere la sua piccola pietra al temperamento della crisi kosovara. Lo dobbiamo agli albanesi e ai serbi, nelle cui vicende ci siamo immischiati per tutto il secolo scorso, con alterne intenzioni e risultati spesso disastrosi. Da quando (1915) D´Annunzio scioglieva la sua ode alla "Serbia di Stefano sire, regno di Lazaro santo" in odio al "boia d´Asburgo", salvo poi trovare, tre anni dopo, il nostro governo a finanziare il Comitato per la difesa nazionale del Kosovo insediato dai patrioti schipetari a Scutari. E dopo aver offerto a albanesi e serbi un saggio del nostro imperialismo di cartapesta, abbiamo utilizzato la Jugoslavia come barriera antisovietica per tutta la guerra fredda, scaduta la quale abbiamo finito per bombardarla senza avere il coraggio di ammetterlo, giustificandoci dietro un "genocidio" per fortuna inesistente. Ma l´impegno nel riportare sotto controllo l´incendio serbo-albanese lo dobbiamo soprattutto a noi stessi. Per noi il Kosovo e gli altri Balcani sono questione di sicurezza nazionale. In termini di stabilità geopolitica, approvvigionamenti energetici in transito dall´Asia all´Europa, connessioni mafiose transadriatiche. Non possiamo trattarli a intermittenza, come fanno gli americani, per i quali sono periferie di una partita globale. Visti dall´Italia i Balcani occidentali sono "estero vicino" da incardinare nel sistema euroatlantico. I traffici di eroina in transito dal Kosovo non vanno in America. Vengono da noi. E´ naturale che Washington se ne disinteressi e quindi consideri i Balcani un settore nemmeno secondario sulla scala imperiale, pur se gli inguaribili dietrologi di Belgrado restano convinti che Bush persegua un complotto antiserbo escogitato da Clinton. Ma se il Kosovo fosse al di là del Rio Grande e non dell´Adriatico, possiamo giurare che l´approccio della Casa Bianca sarebbe molto diverso. I nostri interessi nei Balcani non sono quelli americani (che quasi non ne hanno). Ma allora perché dovremmo sempre e comunque seguirvi le peraltro erratiche orme tracciate da Washington? O davvero crediamo, a differenza di tutti i nostri partner, che le alleanze siano un fine in sé e non uno strumento della sicurezza nazionale? Ciò che conta nel caso Kosovo è salvare il nostro predellino nel Gruppo di Contatto sui Balcani, spiegano arguti diplomatici. Ma chi mai vorrebbe farci fuori, se noi contribuiamo con soldi e soldati in cambio di nulla? Oramai abbiamo tratto il dado kosovaro. Abbiamo esasperato una crisi credendo di chiuderla una volta per tutte. Invece di avvitarci nella discussione su cosa sarebbe stato giusto fare, stabiliamo come affrontare la realtà che abbiamo contribuito a creare. Ostiniamoci a opporre la prospettiva del dialogo diretto fra i contendenti al rischio del conflitto. Serbi e albanesi non sono matti, anche se talvolta sembrano volerci convincere del contrario. Sanno che i loro destini sono incrociati e che non possono permettersi il lusso del confronto permanente. Oggi, in parte per nostra colpa o almeno negligenza, pare l´abbiano dimenticato. Vale la pena provare a ricordarglielo. Lucio Caracciolo