La Repubblica 24 febbraio 2008, RODOLFO DI GIAMMARCO, 24 febbraio 2008
Luigi Lo Cascio. La Repubblica 24 febbraio 2008. « come se fossi fatto di carta velina. Da vent´anni peso sempre uguale
Luigi Lo Cascio. La Repubblica 24 febbraio 2008. « come se fossi fatto di carta velina. Da vent´anni peso sempre uguale. Eppure mi piace la pasta e ne mangio tantissima. E bevo molto vino siciliano. Ho anche presentato personalmente il vino Cento Passi della cooperativa Placido Rizzotto, ucciso dalla mafia, un prodotto che viene dai terreni vinicoli strappati a Cosa nostra nella Sicilia occidentale. Sarà anche che ho fatto un bel po´ di atletica leggera specializzandomi in salto triplo e in salto in lungo al Cus di Palermo, una cosa che ti dà rigore e allenamento utilissimi al mestiere dell´attore. Sarà che a Roma vado volentieri a piedi e cammino a passo veloce per quaranta-cinquanta minuti, mettiamo da Torre Argentina ai Parioli, portando con me in borsa una maglietta di riserva. O sarà che ho addosso la sicilitudine, che forse è un moto perpetuo a base di presenza, di sguardo, di voce, di modi di stringere le labbra, di grovigli barocchi e equilibri cartesiani, incluse certe fatali oscillazioni tra desiderio di misura e tendenza all´eccesso. Una palestra che m´è durata per tutti i miei primi ventidue anni di vita a Palermo. Fatto sta che nella terra di Empedocle e dei sofisti, con eco lontane di tragedia greca, cresci mettendo su una maschera, tenendoti sempre in sospeso tra memoria e dimenticanza. E non cambi più». Queste considerazioni su identità e fisionomia spingono Luigi Lo Cascio a parlare di sé soprattutto come uomo di teatro, come attore diplomato nel 1992 all´Accademia nazionale d´arte drammatica Silvio D´Amico con un saggio su Amleto curato da Orazio Costa, dopo aver studiato, tra gli altri, con Luca Ronconi e Mario Ferrero. Predisposto, non lo si può tacere, e lui per primo non ne tace, a un´immensa fascinazione ricevuta (come spettatore) da Carmelo Bene («L´unico, l´irripetibile, l´inimitabile»). E pensare che oggi la sua vera popolarità ha uno zoccolo duro di pubblico grazie quasi esclusivamente al cinema e alla tv d´autore. «Sì, d´accordo, ma poi non è detto che io corrisponda da capo a piedi ai miei personaggi dei film. Oddio, non posso escludere una forte coincidenza con la dirittura morale di Nicola ne La meglio gioventù, o di Peppino Impastato nei Cento passi. Ma forse preferisco il fatto che al pubblico dei teatri non interessa molto sapere chi io sia realmente. Mi piace di più che s´affermi un io di rappresentanza, non connesso in modo diretto e definitivo al mio intimo, al mio carattere. E così quando recito a tu per tu non parto mai da un presupposto di impegno, di fanatismo del mestiere, di intransigenza. Parto piuttosto dalla mia piccolezza, dalla mia imperfezione, dalla mia indole contorta. Per potermi sentire poi più distaccato e straniero in patria, e per dare il senso dell´altro che ci assedia dall´interno, come m´è già accaduto a teatro nel mio La tana da Kafka, e come mi accadrà ne La caccia che ho tratto dalle Baccanti di Euripide. Ed è meglio, assai meglio. Mi crede?». Come si fa a non credergli? Lo Cascio ha occhi, volto e voce che sono la quintessenza della semplicità, e quindi della sincerità. A sentirlo parlare, convivono in lui un piacere squisitamente siciliano per l´ellissi, un´anima filosofica, un ragionare che sfugge alla lingua d´uso, e, componente con cui fa volentieri i conti sfoggiando molta ironia, ha una piena consapevolezza della propria figura asciutta, scavata, quasi acerba malgrado i suoi quarantuno anni. arrivato a scherzarci, con questo culto del corpo, in uno dei quattro "coroselli" (così battezzati da lui stesso, sorta di spot teatrali che fanno il verso ai caroselli) inseriti di suo pugno nel copione de La caccia, liberamente ricavata dalla tragedia Le Baccanti. una sua odierna scrittura autonoma che gli dà modo, come regista e protagonista, di assumere vari, vertiginosi e visionari stati d´animo del re tiranno di Tebe, Penteo, nel momento (dilatato) in cui col proprio sguardo di figlio incrocia gli occhi della madre Agave, che, preda d´un invasamento inferto da Dioniso, lo squarterà. Il lavoro, col marchio del Css, debutta il 28 febbraio al Teatro Palamostre di Udine, e dal 6 marzo sarà al Leonardo da Vinci di Milano. «I "coroselli" li ho concepiti in sostituzione degli interventi del coro della tragedia greca cui ricorre Euripide. Devono scandire un sentire comune, devono funzionare da coscienza della comunità, ma io ho pensato che nell´ambito degenerato attuale l´unico sistema del consenso è da rapportarsi al consumo, a un´illusione (data al pubblico) di risolvere da sé i propri problemi. Lasciando da parte le spinte a un´anarchia dionisiaca, e invece formulando inviti pubblicitari al godimento e al piacere. Qui la mercificazione ha a che fare con spot sul benessere del corpo, su convenevoli estetici da camerino, sullo sballo della danza, e su una ricetta cannibalesca legata alla conclusione della trama». Non teme un salto traumatico, alternando i livelli barbari e annebbiati di Euripide con la soglia sfacciata di questi spazi pubblicitari in forma di immagini. «Vorrei che il pubblico reagisse non con scherno ma con sorrisi di pietra, come se a dar vita a questi spot fossero maschere terribili, meduse. Certo, io ci rido pure, per i contrappunti dei "coroselli", ma in fondo riproduco un´interruzione per scongiurarla, per ammonire contro ingerenze e divaricazioni di stile nella sfera drammatica dei nostri tempi». Si sente che, argomentando, gioca in punto di fioretto. Tant´è vero che nello spettacolo, nei panni del duce Penteo, calzerà una divisa da schermidore, e stivali da equitazione. «Esprimono tirannia, prepotenza, ordine. Anche se il dispotismo del cacciatore, la sua voglia di catturare e annientare, qui s´inverte in condizione spietata di cacciato, di aggredito». Chissà se ne La caccia vivrà una patologica e devastante solitudine teatrale identica a quella de La tana. Chissà se incombe ancora un rapporto zero di dialoghi sulla scena. «Non sono solo, in questa riflessione-incubo sulle Baccanti. C´è con me un altro attore molto giovane, Pietro Rosa. Ha il ruolo di uno studioso di mitologia greca, è una specie di inappuntabile Mercurio lestofante con molta competenza linguistica. E poi ci sono i nostri doppioni filmati nelle animazioni di Nicola Console, che cura la scena con Alice Mangano, e le ideazioni del suono di Desideria Rayner, mia moglie». Il teatro di Luigi Lo Cascio non prescinde dalla bidimensionalità di spezzoni, di entr´actes, di allucinazioni offerte coi mezzi del cinema. Ma lui distingue, in modo netto. «Il cinema, tranne casi di autori che hanno una vocazione come quella di Greenaway, racconta sempre una storia. A teatro è molto più importante il "come", anziché il "come va a finire" dei film. E a me interessa la condizione di partenza compositiva e autoriale del teatro. Poi, il cinema è innegabilmente un´industria, mentre il teatro non bada sempre agli incassi, si fa con una sedia e basta». Coerenza vuole che La tana sia stato a suo tempo rappresentato in sale volutamente piccole, per settanta-cento spettatori. Non accadrà la stessa cosa con La caccia. «Ora le cose sono cambiate. C´è una più sviluppata miscela di teatro e cinema, i sogni di Penteo s´allargano e prendono molto spazio, e allora direi che la prospettiva più idonea è quella di sale anche grandi». Abbiamo davanti un attore drammatico che (tra i pochi, nell´area dei non-comici) gestisce da sé scrittura, regia e performance. Lo direste uno scrittore pignolo, che si cerca i suoi lettori-spettatori ogni sera... «Scrivo di tutto un po´. Ho quattro-cinquecento quadernetti in cui ricopio articoli di giornali e frammenti di libri. Anche scritture mie di cui ho pudore. Poesie, piccole prose. Il mio rapporto coi libri è cominciato tardi, dai vent´anni in poi, con l´Accademia. All´inizio era un rapporto morboso, tenevo i volumi in valigie nascoste sotto i letti per la paura di non saper rispondere a domande che su quelle opere mi avrebbero fatto gli altri. Tenevo tutto in ordine alfabetico con Adorno accanto ad Agostino. Poi ho approfondito moltissimo certi autori siciliani. Quasimodo, D´Arrigo, Pirandello, Consolo, Bufalino. Anche Bonaviri, un siciliano di Frosinone. E la mia frequentazione delle parole passa attraverso un filtro melodico, sonoro, acustico. nei toni che trovo un´emozione». Bene. Tentiamo di mettere Lo Cascio davanti a uno specchio. Non è facile. Ha un sorridente riserbo, una flemma loquace ma confondente, un´abitudine a ruotare attorno. Passiamo alle "sue" sensazioni, alle "sue" commozioni. Un attimo di pausa. Poi trova il filo del discorso. «Le emozioni personali non nascono per forza dalle cose che ti sorprendono per la prima volta, ma le senti tutto sommato di più in certi ritorni: a Palermo, nella famiglia, nella dimensione intima. Oppure c´è il toccante, appassionante fatto che i miei, compresi i miei due fratelli e le mie due sorelle, mi seguono in qualsiasi festival. Poi metterei ai primi posti le emozioni che ricevo dai libri, dove in fin dei conti c´è uno che ti sta raccontando dalle pagine qualcosa. E c´è il fascino che esercitano su di me alcuni attori, fin dai tempi degli sceneggiati televisivi: parlo di Cervi, Celi, Buazzelli, Randone, ma mi riferisco pure, in altri contesti, a Totò». Tutti i teatranti odiano la televisione, ma si scopre che Luigi Lo Cascio non è oltranzista. «La tv la guardo molto, soprattutto quando devo digerire la cena del dopo-teatro in ora tarda. Lì capitano a sorpresa cose anche belle, mandate in onda a notte inoltrata. Il capolavoro-sintesi dell´informazione è comunque Blob». Dimestichezza limitata all´essenziale con Internet. «Un sistema ideale per la posta elettronica, e per la rapidità d´accesso alle notizie». Poco tempo per la musica. «Era un´altra faccenda quando lavoravo nel cabaret, e suonavo chitarra e armonica nel gruppo blues Le Ascelle. Allora campavo di Hendrix, dei Cream, dei Who». Una domanda che le contiene tutte: che rapporto ha con la morte. «Pensiero ricorrente. la fine delle cose». Una domanda che mette da parte il fair play: che cosa lo addolora. «Teniamo in sospeso questa domanda». RODOLFO DI GIAMMARCO